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Quando web e social network diventano l’anticamera della violenza

a cura di Federica Giandinoto*

Fallimento delle agenzie educative: minori colpevoli di stupri di gruppo organizzati anche su internet.

I recenti stupri di gruppo di Palermo e Caivano ai danni di donne giovani o giovanissime, avvenuti con una strana e grottesca coincidenza temporale entrambi i primi di luglio di quest’anno, hanno toccato ed oserei dire turbato la sensibilità di tutti gli utenti dei mezzi di informazione e comunicazione, per la loro brutalità e crudeltà.

Lo stupro è certamente uno degli illeciti penali più gravi ed infamanti che si possano commettere su una donna, peggio ancora se compiuto da un gruppo di uomini, fatto che, per il codice penale, costituisce di per sé un aggravante del reato di violenza sessuale.

Ciò che colpisce, in queste due vicende legate da un filo rosso, è la giovanissima età degli autori dei barbari atti, tutti adolescenti - nel caso di Caivano ancor più giovani - dato anagrafico non irrilevante e che ci fa tutti interrogare con allarme sull’esito dello sviluppo delle competenze morali delle attuali generazioni, nonché del processo educativo messo in atto dai loro genitori e dalla scuola.

abuso violenza minorenne

Troppi casi si sono verificati nel corso di questi ultimi anni, nei quali giovani in età puberale si sono resi protagonisti di condotte aggressive di vario genere, dal bullismo all’omicidio alla violenza sessuale, perché purtroppo i fatti di Palermo e Caivano non sono un’eccezione.

Non si vuole qui colpevolizzare coloro che si trovano a svolgere il ruolo di genitori, compito al giorno d’oggi divenuto ancor più arduo ed irto di ostacoli, né puntare il dito contro la scuola, fondamentale agenzia educativa, che non può sostituirsi alla sua comprimaria, la famiglia, bensì solo affiancarvisi, nel tentativo di raggiungere l’obiettivo di guidare nel mondo della società i giovani in età evolutiva.

Si vuole semplicemente capire cosa è mancato, in questi ultimi venti anni, nel percorso pedagogico, dove si è verificato il corto circuito, dove si è sbagliato.

Sembra che le prime a mancare, ad un certo punto, siano state le regole, quelle che si apprendono sin da piccoli all’interno del contesto familiare, venute meno a causa dell’assenza delle figure genitoriali, troppo spesso avvolte nella frenetica quotidianità di una vita stressante e piena di impegni, che non ha più consentito loro di dedicare del tempo ai propri figli.

Le regole danno dei limiti, delle indicazioni sulla via da seguire, insegnano i ruoli, prima del gioco, poi sociali, trasmettono l’empatia ed il rispetto per l’altro.

I genitori delle ultime generazioni hanno dovuto, ed a volte anche voluto, delegare la loro funzione ai ed alle baby-sitter, non sempre adeguati nell’educare; alcuni si sono fatti sostituire addirittura dalla televisione, internet e dai videogiochi, quando avevano la necessità di andare a lavorare e non potevano affidare i minori a nessun adulto.

I professori di scuola hanno perso ormai da molto tempo la loro autorevolezza, privati del loro ruolo pedagogico, relegati unicamente a far piovere dall’alto agli allievi sterili nozioni, con la consapevolezza che l’aspettativa dei genitori sia quella che i figli vengano promossi, sempre e comunque.

Ma torniamo ai gravissimi fatti di violenza, ed alla loro risonanza mediatica.

Ciò che colpisce, oltre agli eventi nudi e crudi, è l’esibizione del comportamento criminale da parte dei suoi autori, mostrato, nel caso di Palermo, attraverso la ripresa video indirizzata ad un ignoto spettatore - di cui le indagini stanno cercando di verificare l’identità - che forse ne era il primo destinatario (si è trattato forse di uno stupro su commissione di un voyeur?), ma forse anche ai singoli violentatori.

Il registrare un atto così ignobile, quasi che fosse un modo per immortalare e far rimanere vivo per sempre il ricordo di un’impresa vittoriosa, ha dei contorni inquietanti e patologici, come tutte le realizzazioni di video contenenti atti socialmente pericolosi e violenti, che negli ultimi mesi si sono spesso avvicendati sulla rete.

Per questi soggetti si tratta di un modo per fissare a perpetua memoria un trofeo conquistato, un traguardo raggiunto, un premio vinto, da mostrare a tutti, con sicumera e vanagloria.

Tutti siamo rimasti sbigottiti, di fronte alle parole denigratorie, ingiuriose e notevolmente svalutanti della vittima da parte degli stupratori, quando tra loro dialogavano su “Whatsapp” per commentare la loro condotta: parole di disprezzo, scherno e rancore.

Ma ancor più drammaticamente siamo rimasti stupiti, di fronte al cinismo degli utenti della rete, che hanno assistito in qualità di pubblico ai fatti, e che hanno rivolto alla giovane ragazza diciannovenne violentata in Sicilia dei commenti molto severi e particolarmente stigmatizzanti, accusatori e giudicanti.

Rimproveri maschilisti retrogradi, specchio di una cultura patriarcale non ancora superata, purtroppo ancora attuale, espressi anche da donne, perché la ragazza è voluta uscire con quelli che credeva essere i suoi amici, perché ha voluto bere ed ubriacarsi, e quindi si è messa colpevolmente dalla parte del torto.

Parole che feriscono, anche quando la vittima risponde, in uno stato di deterioramento psicologico, che è distrutta, sta male, si sente completamente svuotata dopo l’esperienza traumatica subita: ma sulla rete ci sono molti leoni da tastiera, che dietro lo schermo di un computer perdono i freni inibitori, e danno ampio sfogo alla loro frustrazione diventando aggressivi, perdendo ogni empatia.

Ed i danni psicologici di questo uso dei social networks per le vittime sono incalcolabili: disturbo post traumatico da stress, depressione, impotenza appresa, scarsa autostima, disturbo d’ansia sociale, fobie di varia natura, perdita di fiducia negli altri e nelle istituzioni.

In questo modo, inoltre, si verifica quella che criminologicamente si chiama “vittimizzazione secondaria”, cioè rendere doppiamente vittima di un reato un soggetto, che in questo modo rivive il trauma, con la conseguenza che solitamente viene scoraggiato a parlare apertamente della sua situazione di sofferenza, o persino a denunciare l'accaduto.

Di fatto, chi ne soffre si colpevolizza fino al punto di assumersi la responsabilità di ciò che è successo, provando senso di colpa ed anche vergogna, e rinunciando a far valere i propri diritti: fatto frequente nelle donne vittima di violenza sessuale.

Questa riflessione vuole far soffermare il lettore sulle potenzialità che hanno i social networks, molto positive in caso di uso pro-sociale e costruttivo degli stessi - pensiamo all’utilizzo dei social media con finalità didattiche, divulgative ed educative - ma purtroppo anche distruttive e antisociali, quando diventano un’arma per attaccare e rendere l’altro oggetto delle proprie condotte aggressive.

*Avvocato

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