Tecnologie, Genitori e Minori

Uso delle TIC – Aspetti giuridico-legali e responsabilità dei genitori dei minori

Uso delle TIC – Aspetti giuridico-legali e responsabilità dei genitori dei minori

Le TIC, ovvero le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, secondo la definizione più diffusa, sono quei “processi e strumenti tecnologici che servono a migliorare le conoscenze e gli strumenti di apprendimento. Le TIC o ICT offrono, infatti, strumenti di lavoro, di condivisione e cooperazione utili soprattutto nella moderna didattica per competenze.

Come noto, infatti, le varie riforme che in questi ultimi anni si sono avvicendate in materia scolastica, una per tutte la c.d. Legge della Buona Scuola (L.107/2015) con i successivi vari decreti di attuazione (dal 59 al 66/2017) ha valorizzato, in conformità con le Raccomandazioni Europee in merito, il processo di digitalizzazione della scuola e dell’ampio uso degli strumenti informatici sia nella didattica che nei processi amministrativi della scuola.

Ciò ha molteplici risvolti positivi e si pone peraltro perfettamente in linea anche con i principi di potenziamento delle competenze degli studenti, dello sviluppo di concrete abilità utili nel mondo del lavoro nonché con la valorizzazione di una scuola sempre più inclusiva ed attenta alle esigenze anche degli alunni con esigenze speciali.

Le tecnologie, dunque, hanno a pieno titolo fatto ingresso nella scuola italiana e naturalmente il loro avvento è stato accolto con grandi aspettative.

I vantaggi sono innegabili: le TIC consentono di veicolare la didattica in modo più diretto ai ragazzi, che sono “nativi digitali” e che hanno già per altri versi familiarità con tali strumenti comunicativi poiché fanno parte della loro consueta vita relazionale.

Ma vi è di più esse:

  1. sostengono l’alfabetizzazione informatica, guidando lo studente verso un utilizzo sempre più consapevole delle tecnologie;

  2. facilitano, come si è detto, il processo di insegnamento/apprendimento e offrono anche un sostegno alla didattica curricolare tradizionale;

  3. promuovono situazioni collaborative di lavoro e studio;

  4. costituiscono uno degli ambienti di sviluppo culturale del cittadino.

Ne deriva che la qualificazione dell’uso delle TIC non deve restare confinata all’interno di uno specifico ambito disciplinare, ma deve, al contrario diventare pratica sempre più diffusa, capace di coinvolgere il complesso delle attività didattiche.

Le TIC, infatti, se usate in modo appropriato possono migliorare non solo i processi di apprendimento ma anche la motivazione e le prestazioni degli studenti, possono valorizzare lo sviluppo delle diverse intelligenze e i relativi linguaggi, promuovendo un apprendimento di tipo individualizzato e aiutare gli studenti ad essere sempre più protagonisti nei processi di costruzione della conoscenza nonché fornire le competenze necessarie per una cittadinanza attiva e consapevole (Competenze Chiave Europee 2018).

In tale quadro utile quindi comprendere il ruolo dell’adulto nel processo di “educazione digitale” dello studente e dei ragazzi in generale.

Acclarata l’implicita validità dello strumento occorrono regole precise per valorizzarlo ed evitare le derive dannose dell’uso smodato o distorto delle tecnologie di cui in questi anni in diverse occasioni si è avuto modo di dibattere.

A scuola e non solo oggi “educare” rappresenta una delle sfide più ardue sia per la famiglia che per la società, e spesso e volentieri i soggetti a ciò preposti e cioè gli “adulti” si rivelano totalmente inadeguati a svolgere questo delicato compito.

Quanto detto assume una rilevanza anche da un punto di vista giuridico, come noto i genitori sono responsabili dell’educazione che viene impartita ai propri figli, educazione che per come chiarito da costante giurisprudenza della Cassazione “non consiste solo nel fornire ai figli una serie di regole da seguire ma soprattutto nel controllare che gli stessi siano in grado di sviluppare una personalità equilibrata, rispettosa degli altri e delle regole che il vivere sociale impone”.

Ne deriva che in materia di responsabilità genitoriale per attività, anche inerenti il corretto uso del web, del figlio la Cassazione, in diverse pronunce, ha affermato che: “la prova liberatoria per i genitori dovrà consistere nel dimostrare di avere impartito insegnamenti adeguati e sufficienti per relazionarsi con gli altri, anche con riferimento all’uso degli strumenti informatici”.

Ad oggi questa prova risulta particolarmente onerosa per i genitori, i quali spesso non conoscono o conoscono poco il mondo digitale, i pericoli che esso cela e i comportamenti che i loro figli assumono quando si trovano on line.

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Bisogna perciò chiedersi: cosa si intende per l’educazione digitale e che ruolo hanno gli adulti in genere?

Quando si pensa al concetto di educazione digitale, infatti, non si ha molto chiaro a quale idea di educazione bisogna riferirsi; si evocano concetti di educazione lontani, artificiali, tecnologici, cui guardare come a qualcosa di nuovo da imparare. Corollario di questo modo di ragionare è il rafforzamento della scissione tra l’Io reale e l’Io virtuale, quasi come se la persona avesse due diverse e nettamente distinte dimensioni: una online, una offline.

Da tale modo di percepire l’educazione digitale derivano rilevanti e talvolta paradossali conseguenze, ma soprattutto deriva la convinzione che si può essere persone “diversamente educate” secondo il piano, reale o virtuale, che decidiamo di considerare. In questo non sempre gli adulti possono essere d’aiuto ai più giovani.

Gli adulti, infatti, sono stati per molto tempo i grandi assenti del web: la generazione precedente a quella dei c.d. nativi digitali, non aveva la tendenza ad affidarsi alla realtà virtuale per intessere relazioni di tipo personale, al massimo si concepivano “rapporti virtuali” per far fronte ad esigenze di tipo logistico o lavorativo.

La presenza degli adulti nel mondo digitale, inoltre, non è sempre incoraggiante, basti visionare alcuni profili per rendersi conto che voglia di visibilità e manie di protagonismo non sono appannaggio esclusivo del mondo giovanile: molti genitori, ad esempio, hanno l’abitudine di pubblicare foto, proprie o dei propri figli, rappresentanti svariati momenti, anche intimi, della giornata.

La prassi di condividere o di postare foto dei propri figli, specie se minori, è deprecabile poiché le foto potrebbero finire in un deep web fatto di pedofili o persone che potrebbero utilizzare queste immagini per produrre materiale pedo-pornografico.

Sul punto di recente si è espresso con una significativa sentenza il Tribunale di Parma, con la sentenza 698 del 5 agosto scorso, che per la prima volta sdogana espressamente i dispositivi di parental control autorizzando il controllo dei dati in entrata e in uscita dal cellulare dei figli.

Il Tribunale della città emiliana si è espresso in base a tale vicenda: una coppia con due figli gemelli di 14 anni, finita in tribunale per la causa di divorzio; tra i motivi di attrito proprio l’utilizzo dei dispositivi digitali da parte dei due minorenni: i due ex coniugi avevano concordato l’acquisto del cellulare, ma non avevano discusso circa l’utilizzo che i ragazzi dovevano o potevano fare del cellulare stesso. Così la madre aveva installato un software di parental control che le aveva consentito di monitorare l’attività di navigazione online. Un controllo lecito da parte del genitore che, grazie a questo, ha scoperto la partecipazione ad un gruppo Whatsapp dei propri figli, dove venivano inviati anche contenuti pedopornografici.

Grazie a questo sistema di controllo, la donna ha subito allertato le Forze dell’Ordine che hanno scoperto sia gli appartenenti a tale gruppo che bloccato la ricezione degli stessi contenuti non adatti ai minorenni.

Il tribunale ha disposto il rafforzamento del controllo da parte dei genitori, che dovrà estendersi anche al monitoraggio di tutti i dispositivi digitali usati dai figli che «stanno entrando nel turbolento mondo dell’adolescenza” – scrive la sentenza – “I genitori, oltre a implementare il controllo digitale, dovranno anche rafforzare la loro presenza fisica”.

Anche i fenomeni del cd odio social, degli haters e del hatespeech, ovvero dell’aggressività e degli insulti on line perpetrati con toni di massima violenza e turpiloquio, non sono da considerarsi solo come espressione di un disagio giovanile.

Sul punto basti ricordare che recentemente la cronaca ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica forme di bullismo o di cyberbullismo perpetrate da alcuni genitori nelle chat dei gruppi classe di Whats App.

Nota la decisione di alcuni dirigenti scolastici che, esasperati dal clima teso che si creava dentro e fuori la scuola, hanno vivamente scoraggiato la creazione di questi gruppi.

In particolare in queste “conversazioni” via chat i genitori hanno dato sfogo a comportamenti non idonei quali: aggressività verso gli altri genitori, intolleranza quando non vero e proprio razzismo nei confronti di bambini, specie se extracomunitari, insensibilità nei confronti degli alunni diversamente abili accusati di rallentare il percorso di apprendimento del resto della classe, criticità nei confronti dei voti più alti di altri bambini ritenuti meno meritevoli dei propri figli.

Gli adulti, insomma, da grandi assenti diventano talvolta veri e propri esempi da non seguire nella realtà virtuale; in altre parole anche gli adulti devono essere “educati” ad un uso corretto e consapevole del web che dia loro la capacità di riconoscere i pericoli del web, di cogliere i segnali di allarme ma anche di comportarsi loro stessi adeguatamente.

L’educazione ai tempi del web, quindi, è un concetto che riguarda indistintamente grandi e piccoli.

Claudia Cremonesi

a cura di

Claudia Ambrosio

Avvocato e Criminologa

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