Scienze ed altri saperi

Alla ricerca della coscienza: La Rosa e il suo Profumo (Parte seconda) du M.F. Oraldo Paleologo

Alla ricerca della coscienza: La Rosa e il suo Profumo (Parte seconda) du M.F. Oraldo Paleologo

Die Rose ist ohne Warum” [La Rosa è senza perché]. Inizia così una quartina di Angelo Silesius, presente nella sua opera “Il Pellegrino cherubico”. In una versione barocca, prosegue così:” […] Fiorisce perché fiorisce, sboccia perché sboccia, non fa attenzione a se stessa, non chiede se la si vede”.

Al di là dell’oscurità dell’autore, i versi riportati pongono in luce una questione di estrema importanza: il fare attenzione a se stessi, la consapevolezza di esserci. In una sola parola: la coscienza. E non essa la consapevolezza di averne una.

Prosegue col presente articolo l’indagine sulla ricerca della coscienza, tenendo come punto di riferimento e fonte di ispirazione il libro “Irriducibile”, dello scienziato Federico Faggin.

Nel suo libro, Faggin racconto di quanto sentì parlare della coscienza per la prima volta: fu durante il rituale di preparazione alla prima comunione, laddove il sacerdote gli impose di “farsi l’esame di coscienza”, condizione imprescindibile per l’Eucarestia (un’esperienza, forse, comune a molti). Ma un fanciullo cosa può saperne della coscienza? È consapevole di averne una? A fare da contraltare a tale incontro, di stampo “religioso”, vi fu quello avvenuto molti anni dopo, mentre lavorava alla Synaptics sulle reti neurali artificiali.

Nei volumi sulle neuroscienze (oggi come allora), la coscienza viene introdotta e spiegata come conseguenza e risultato dell’attività elettrochimica del cervello, in maniera più o meno esplicita. Un giorno Faggin chiese ad un professore di spiegargli in che modo l’attività cerebrale potesse sfociare poi in sensazione, emozioni, sentimenti. Il professore di rimando: “Ti riferisci alla coscienza?”. A tale domanda, Faggin rispose affermativamente, incalzando altresì sul fatto che la coscienza non fosse stata mai menzionata.

Il professore, con certezza “Hilbertiana”, rispose che la coscienza era in qualche modo prodotta nel cervello, e che un giorno gli scienziati ne avrebbero scoperto le origini e la natura, ovviamente! Sono passati 36 anni da allora, e (ovviamente!), ancora nessuno è riuscito a svelare il mistero della coscienza. D’altra parte, è ben noto che fine abbia fatto il programma della conoscenza hilbertiano: naufragato miseramente dinanzi al sorgere e all’incedere della meccanica quantistica e dei teoremi di Incompletezza.

Affermare che la coscienza sia il frutto dell’attività elettrochimica del cervello significa accettare senza riserve la congettura materialistica, secondo il quale ogni fenomeno è spiegabile in termini di interazioni tra molecole, atomi e particelle elementari. Immersi nel paradigma scientista di derivazione positivista, non siamo neanche portati ad ammettere che tale visione possa essere in realtà semplicemente una presa di posizione dogmatica, laddove invece si potrebbe assumere che le proprietà e la natura della coscienza non siano in alcun modo “quantificabili”, né “riducibili” ad interazioni fisiche. Torna qui la parola chiave che fa da sfondo a tutta la trattazione: le caratteristiche della coscienza sono “irriducibili”. Per affrontare in maniera metodica un qualcosa che attiene ad un campo epistemologico di confine, occorre introdurre delle nuove definizioni (o quantomeno tentarne qualcuna).

E, come di sovente è avvenuto e accade nella storia e nella filosofia della scienza, le nuove definizioni si basano su concetti antichi: i sentimenti e le emozioni possono, forse, essere assimilati a quelle cose che i filosofi chiamavano qualia. Per tentare di far comprendere cosa si intenda con tale termine, si immagini la coscienza come uno “spazio”, un “dominio”, in cui sono contenuti le strutture semantiche attraverso le quali i segnali provenienti dall’esterno vengono trasformate in sentimenti, in emozioni, e quindi in qualia.

Quando ad esempio veniamo in contatto con una rosa (sì, ancora la rosa), noi ne percepiamo il profumo, trasportato attraverso peculiari molecole aventi caratteristiche strutture tridimensionali. Nell’epitelio nasale vi sono dei recettori che percepiscono (e riconoscono) tali molecole, che a loro volta causano segnali elettrici macroscopici. Tali segnali entrano nelle reti neurali, che infine restituiscono il nome dell’oggetto: la rosa. Se ci fermassimo all’analisi di questo meccanismo, saremmo costretti ad ammettere che anche una macchina, progettata ad imitazione dell’essere umano, potrebbe riconoscere la rosa attraverso un meccanismo analogo. Qual è allora il quid che rende l’essere umano non identificabile con una macchina?

L’irriducibilità risiede nel fatto che per l’essere umano l’identificazione della rosa non si riduce ad un segnale elettrochimico, ma diviene esperienza: diviene melanconia, memoria, gioia, mediate dal restare inebriati dalla sua bellezza. Possono le macchine esperire come l’essere umano? Allo stato attuale, no. E anche se lo facessero, non potrebbero comunicarcelo, perché l’esperienza non si può spiegare a parole.

La trasformazione da segnale elettrico a sentimento, ovvero da quantum a quale rappresenta ciò che David Chalmers definì il “difficile problema della coscienza”. Il problema che poneva il filosofo australiano si può formulare come segue: perché il meccanismo di elaborazione delle informazioni che avviene nel cervello prevede il passaggio da quanta a qualia?

Passaggio che, beninteso, non è detto che proceda necessariamente dai quanta ai qualia: può procedere nel verso opposto. Per ovviare a tale intrinseca e (ancora) insuperata difficoltà, si può riconsiderare un concetto, o, ancor meglio, una visione del mondo, secondo la quale la coscienza (e con essa i qualia) siamo una proprietà intrinseca del reale, esattamente come lo sono la carica elettrica e lo spin per le particelle.

Da tale assunto discende che tutto l’esistente dovrebbe possedere tali irriducibili proprietà, in alcun modo riconducibili ad altre più elementari. Considerando più dappresso quanto appena detto, ci si trova davanti ad un’idea antichissima, il pampsichismo, secondo la quale tutta la materia possiede delle caratteristiche “psichiche”, tali che possano influenzare la percezione della realtà esterna. Fosse vera, ne deriverebbe la catastrofe dell’oggettività scientifica, dacché se una realtà interna (psichica) può influenzare quella esterna, come essere certi della veridicità del dato scientifico? Sarebbe impossibile, e pertanto la scienza è stata costretta (per la sua sopravvivenza), a metterla da parte.

Ma ciò che si butta fuori dalla porta, di sovente, rientra da altrove. E così ci si può imbattere in un fisico che si esprime così riguardo la coscienza: “Io considero la coscienza come fondamentale, e la materia come un derivato della coscienza. Non possiamo andare oltre la coscienza. Tutto ciò di cui discorriamo, tutto ciò che noi consideriamo come esistente, richiede una coscienza”. Firmato: Max Plank.

Si è detto in precedenza che i qualia possono essere considerate come le strutture semantiche che albergano nel nostro “spazio interiore”, lo spazio-I. Ma cosa si deve intendere esattamente con l’attributo “interiore”? Siamo così abituati a pensare tutta la realtà immersa nello spazio-tempo (che sia di Newton o Minkowski, poco importa), che corriamo il rischio di pensare che lo spazio-I sia un dominio fisico collocato all’interno dell’essere umano.

Nulla di più fuorviante. I qualia, in quanto oggetti semantici, non abitano lo spazio-tempo fisico, né obbediscono alle sue leggi. Sono, piuttosto, molto più simili a quelle mirabili cose che incontriamo nelle nostre esperienze oniriche. Una volta introdotto il concetto di qualia come “informazione” che risiede nello “spazio interiore” dell’essere umano, ci si può chiedere in che modo tali enti possano essere relazionate con la percezione, l’apprendimento e la comprensione Il cervello umano contiene complesse reti neurali che consentono all’uomo di organizzare e ri-conoscere le percezioni sensoriali che provengono dal mondo esterno in maniera “inconsapevole”.

L’auto-coscienza nasce nel momento in cui l’osservatore comincia a distinguere e riconoscere i fenomeni importanti e cruciali per la conoscenza del mondo che lo circonda. Tale funzionalità, forse, si sviluppa nell’essere umano fin dalla tenera età, quando comincia a riconoscere gli oggetti anche senza attribuir loro un nome o un significato: fanno semplicemente parte dell’altro da sé. Tale meccanismo gnoseologico si può sviluppare anche senza che il soggetto conoscente ne abbia coscienza.

In altre parole, un bambino può riconoscere un tavolo o un giocattolo senza che ne sia cosciente: sono solo oggetti esterni. In tale senso, si potrebbe assimilare questo meccanismo di conoscibilità del mondo esterno in maniera “automatica”, in modo simile al machine learning dei computer. Attraverso tale funzionalità però, può aumentare soltanto la competenza, sia degli esseri umani che delle macchine. Come ben espresso da Faggin: si attribuisce intelligenza alle macchine perché questa viene confusa con la competenza.

L’intelligenza va oltre: non è una proprietà algoritmica, bensì la capacità di penetrare nell’intima essenza delle cose. E tale fine non si può ottenere solo con la capacità razionale (quella che si basa sulla ratio, ovvero sul rapporto e sul calcolo), ma anche, e soprattutto, con l’intuizione, dacché solo attraverso questa l’uomo riesce a portarsi nel dominio dei qualia, che non sono computabili. È solo misconoscendo la capacità intuitiva dell’essere umano che lo si può assimilare ad una macchina.

E da questa constatazione emerge con urgenza ancora più stringente la necessità di un corretto uso delle parole esistenti, e, forse, un nuovo linguaggio: per comprendere cose che non sono state mai comprese, occorrono pensieri che non abbiamo mai pensato, e parole che non abbiamo mai proferito. Scriveva Wittgenstein: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”.

Nulla trasforma l’uomo quanto l’esperienza. Esperire il mondo, significa conoscerlo. Averne consapevolezza, ci mostra la coscienza. Ed è così che nel nostro percorso di vita e conoscenza che “ci sono momenti in cui una rosa è più importante di un pezzo di pane.” (Rainer Maria Rilke).

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