Uno sguardo sull'universo: gli anni che sconvolsero la fisica

Uno sguardo sull'universo: gli anni che sconvolsero la fisica

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di Katia Canonico

Abstract - Poco più di cent’anni fa, gli scienziati pensavano alla vita dell’Universo come qualcosa di eterno, infinito e stabile, senza inizio e senza fine e ciò rendeva impossibile mettere a fuoco la domanda circa le origini dell’Universo. Ma ben presto le cose cambiarono e tutt’oggi molte domande restano senza risposta. È possibile risalire alle origini.

Il 14 Settembre 2015 alle 11:50:45 ora italiana, è stata rilevata un’onda gravitazionale prodotta più di un miliardo di anni fa da un sistema di due buchi neri, distanti da noi più di un miliardo di anni luce:

questi due oggetti hanno orbitato per milioni di anni l’uno intorno all’altro avvicinandosi sempre di più (la loro orbita si è contratta a causa della perdita di energia dovuta alle loro emissioni di onde gravitazionali), acquistando sempre più velocità (circa la metà della velocità della luce) e alla fine si sono fusi per formare un unico buco nero di massa ancora maggiore, producendo in pochi decimi di secondo 50 volte la luce emessa da tutte le stelle presenti nell’Universo.

Nel calcolo delle masse si è potuto vedere che dalla massa iniziale fino alla massa dell’oggetto formato alla fine risultano tre masse solari mancanti che si sono convertite in energia gravitazionale secondo la famosa equazione di Albert Einstein E=mc2.

Ed è proprio da Albert Einstein che nel 1915 arrivò la svolta decisiva nella comprensione dell’Universo, quando pubblicò la teoria della relatività generale, superando il concetto newtoniano di spazio, tempo e gravitazione: secondo Newton lo spazio è qualcosa di rigido e i corpi si muovono attirati da quella forza gravitazionale che li porta gli uni verso gli altri; al contrario, secondo Einstein, lo spazio non è un’entità rigida ma viene deformato sotto la forza di una massa, causando così il movimento dei corpi celesti. Tuttavia non è solo lo spazio ad essere influenzato dalla distribuzione di massa, bensì anche lo scorrere del tempo: orologi posti in campi gravitazionali più forti, battono i secondi più lentamente, portando così alla creazione di una nuova entità, lo spazio-tempo. La relatività generale è presente nella nostra vita quotidiana più di quanto si pensi: in ogni cellulare è presente il GPS (Global Positioning System) che funziona tramite una comunicazione tra l’oggetto a terra e i satelliti. Siccome il tempo scorre diversamente sulla Terra e sui satelliti, senza le correzioni della relatività generale non osserveremo la grande precisione che questo sistema riesce a darci nel posizionamento.

Fu Einstein, nel 1916, a predire l’esistenza delle onde gravitazionali. Il campo gravitazionale di un buco nero è così forte che qualunque oggetto (compresa la luce), avvicinandosi sufficientemente e superando quello che si chiama orizzonte degli eventi, non sarebbe più in grado di sottrarsi alla fortissima gravità.

Ma la proposta iniziale di misurare le onde gravitazionali con la luce arrivò negli anni ’70 da Rainer Weiss e poi portata avanti da Kip Thorne, proposta che si trasformò in un osservatorio, l’osservatorio LIGO; mentre ad Adalberto Giazotto e Alain Brillet fu proposta la costruzione di un rivelatore analogo, il rivelatore VIRGO che attualmente è installato presso l’European Gravitational Observatory a Cascina, vicino Pisa. Lo strumento che si usa per misurare questa onda gravitazionale è l’interferometro di Michelson, composto da un laser, alcuni specchi di quarzo purissimo e un fotorivelatore che misura la quantità di luce che vi incide sopra (sono oggetti sospesi con filtri sofisticati per evitare che i disturbi sismici del terreno nascondano completamente la piccolissima vibrazione che si va a misurare). Nel tubo in cui viaggia il fascio laser c’è il vuoto perché la propagazione del laser non può essere disturbata dagli urti con le molecole dell’aria. Il fascio laser raggiunge uno specchio che separa il fascio in due componenti che viaggiano lungo due bracci fra loro perpendicolari (i bracci sono lunghi alcuni chilometri perché la loro lunghezza aumenta l’effetto dell’onda gravitazionale che si va a misurare), raggiungono gli specchi alla fine di questi bracci, tornano indietro, si ricombinano e si sovrappongono. L’arrivo di un’onda gravitazionale cambia la distanza tra i bracci e di conseguenza di queste variazioni sul fotorivelatore un’alternanza di luce e di buio, segno di una possibile interazione con un’onda gravitazionale: il segnale misurato è stato lo spostamento di uno di questi specchi, un segnale piccolissimo, dell’ordine di 10-18 metri.

Interferometro di Michelson

Nella prima parte del 20esimo secolo, era ben noto che il nostro sistema solare giacesse all’interno di una galassia, la Via Lattea: ogni singola stella che vediamo in cielo ad occhio nudo fa parte di essa e fino agli anni ’20 , si riteneva che questa singola galassia rappresentasse l’intera estensione dell’Universo, oltre il quale c’era solo il vuoto. Eppure vi erano anche oggetti appena distinguibili ad occhio nudo che sembravano diversi, uno dei più notevoli era Andromeda: nebulose simili (vennero chiamate nebulose per via della loro natura tenue e sottile, come una nuvola, difatti “nebulosa” deriva dalla parola latina per nuvola) a quest’ultima vennero trovate sparse in giro per tutto il cielo notturno. I telescopi rilevarono che molte di esse erano ben più complesse di semplici nuvole di gas interstellare, sollevando così due possibilità: questi oggetti erano luoghi in cui nascevano le stelle e quindi risiedevano all’interno della nostra galassia, oppure erano galassie di per sé situate al di fuori della Via Lattea? Le implicazioni di questa seconda possibilità furono enormi, rimodellando così la conoscenza sulla dimensione dell’Universo: nel 1923, l’astronomo Edwin Hubble studiò la nebulosa Andromeda, lavorando con quello che allora era il telescopio più grande al mondo, il telescopio Hooker da 2,5 metri, situato all’Osservatorio di Monte Wilson sulla cima delle alte montagne della Sierra che sovrastavano Los Angeles e la California (al giorno d’oggi il telescopio più grande esistente è il GTC, con uno specchio primario di oltre 10 metri di diametro). La prima stella che Hubble notò era una stella che possedeva una luminosità variabile, una Variabile Cefeide: il campionario stellare delle Variabili Cefeidi sono di fondamentale importanza per gli astronomi, in quanto grazie alla loro luminosità è possibile calcolarne la distanza. Ed è proprio ciò che fece Hubble misurandone la brillantezza, stimandone il periodo (cioè il tempo in giorni che va da un apice di luminosità all’altro, che secondo Hubble era di 31,415 giorni) e annotando una curva: Hubble capì che Andromeda si trovava a 900.000 anni luce di distanza, il che la rendeva l’oggetto più remoto mai registrato.

Nel 1917 Einstein prese la sua teoria della relatività generale e l’applicò all’intero Universo: l’attrazione gravitazionale di tutta la materia dell’Universo avvicinerebbe tutti gli elementi nel cosmo, iniziando ad accelerare lentamente, ma in modo graduale, finché la gravità alla fine, porterà al collasso dell’Universo stesso. Ma Einstein credeva che l’Universo fosse eterno e statico e di certo non instabile o che rischiasse di collassare su se stesso, sebbene le sue equazioni sembravano dimostrare il contrario: per tenere tutto in equilibrio, aggiunse alla sua equazione il Λ o la Costante Cosmologica, una sorta di forza di antigravità inventata che agisce contro la normale gravità. Non aveva prove di ciò ma più tardi ammise che la Costante Cosmologica serviva al solo scopo di una distribuzione quasi statica della materia. Al contrario, Georges Lemaître descriveva un Universo tutt’altro che statico, che si espandeva con galassie che sfrecciavano l’una lontana dall’altra; Lemaître colse le implicazioni di tutto ciò: andando a ritroso nel tempo dedusse che ci dovesse esser stato un momento in cui l’intero Universo si restrinse in un volume minuscolo, qualcosa che soprannominò l’atomo primigenio. Ben presto, in un incontro con Lemaître, Einstein scartò l’idea di un Universo dinamico…fino a quando nel 1928 Edwin Hubble, dopo aver dimostrato l’esistenza di galassie al di fuori della nostra, iniziò a misurare la velocità a cui si muovevano queste galassie rispetto alla Terra, utilizzando l’effetto redshift: quando la fonte di luce si avvicina, la lunghezza d’onda osservata è compressa verso la parte viola o blu dello spettro, ma se la fonte si allontana da noi la lunghezza d’onda si allunga verso la parte rossa dello spettro. Nell’effetto redshift, maggiore è la velocità a cui l’oggetto si allontana, maggiore è il redshift. Hubble doveva misurare la luce media che veniva dalla galassia per poter ottenere uno spettro e calcolare così il redshift. Ma se l’Universo fosse eruttato da un singolo punto, da dove proveniva tutta la materia? La teoria del Big Bang doveva fornire una spiegazione alla formazione della materia stessa. Gli astronomi andarono alla ricerca degli elementi più comuni tramite un telescopio solare: trovarono ferro, idrogeno, ossigeno, magnesio. Cecilia Payne aveva studiato all’università di Cambridge, non le fu permesso ottenere una laurea in quanto donna, così per continuare a studiare dovette lasciare l’Inghilterra per trasferirsi in America; fu lì che svelò la composizione dell’Universo: intuì che gli spettrografi erano influenzati dai processi nell’atmosfera del Sole, che distorcevano l’apparente abbondanza degli elementi che costituiscono il Sole, perciò li ricalcolò e scoprì che esso era composto quasi interamente da solo due elementi, l’idrogeno e l’elio. Tutti gli altri elementi quali il carbonio, l’ossigeno, il sodio, il ferro che rendevano il Sole così simile alla Terra, formavano solo una minuscola frazione della sua composizione. L’idea venne considerata impossibile e accettata solo quattro anni dopo, quando il direttore di un prestigioso osservatorio (paradossalmente lo stesso uomo che aveva giudicato il lavoro della Payne impossibile) arrivò esattamente alle stessa conclusione attraverso mezzi diversi: la rivelazione della Payne si scoprì essere costante per quasi ogni stella della galassia.

George Gamov, un fisico nucleare russo, cominciò a pensare all’Universo in termini di secondi e di minuti piuttosto che di miliardi di anni, costruì un modello matematico delle primissime fasi dell’Universo e reclutò Ralph Alpher affinché lo aiutasse. A circa 3 minuti dal Big Bang, l’Universo doveva essere stato incredibilmente denso e caldo: in questa fase gli atomi stessi non potevano esistere ma solo le loro parti costituenti; Gamov e Alpher gli diedero il nome Ylem, da una parola inglese antica che vuol dire “materia”. Le proporzioni di idrogeno ed elio previsto dal loro modello combaciavano con quelle misurate nelle stelle: annunciarono i loro risultati in un documento pubblicato nel 1948. Alpher continuò a studiare l’Universo e in particolare su ciò che accadde dopo: paragonò l’Universo in questa fase ad una nube ribollente di elettroni liberi e nuclei atomici, per poi scendere ad una temperatura critica, una temperatura tanto fredda che gli elettroni poterono legarsi ai nuclei di idrogeno ed elio. In questo preciso momento, fu sprigionata la luce che viaggiò libera nell’Universo e Alpher intuì che questa luce è ancora in grado di raggiungerci dopo miliardi di anni: molto debole, molto tenue ma osservabile in tutte le direzioni. Calcolò che l’espansione dell’Universo dovrebbe allungare le lunghezze d’onda di questa luce oltre la gamma dello spettro visibile e dovrebbe arrivare ora come radiazione a microonde. Tuttavia gli oppositori del Big Bang distorcevano e adattavano di continuo le loro teorie per far sì che la loro idea di un Universo eterno e infinito si adeguasse alle nuove osservazioni. La prova definitiva del Big Bang arrivò solo 15 anni dopo grazie a due ingegneri radio, Arno Penzias e Robert Wilson, che nel 1964 lavoravano ai Laboratori Bell negli USA. Quando accesero il loro telescopio notarono che il cielo era saturo di radiazioni a microonde: tutti i corpi caldi emettono radiazioni a microonde, sia che essi provengano dall’atmosfera che dallo strumento stesso e la comunicazione mobile di oggi ne inonda il cielo. Perciò, prima di poter fare delle misurazioni utili, calibrarono la loro antenna a tromba per cercare di ridurre questo rumore. Anche tenendo in conto l’atmosfera e la strumentazione (a quell’epoca non esistevano i cellulari di cui preoccuparsi), rimaneva questo rumore di sottofondo persistente ed irritante di cui non riuscivano a liberarsi, nonostante i tentativi: fu registrato sul loro strumento come una radiazione con temperatura costante di tre gradi sopra lo zero assoluto, che sembrava essere ovunque loro puntassero il loro cornetto acustico celeste. Senza volerlo, Penzias e Wilson si erano imbattuti in quella radiazione prevista, il lampo di luce di Alpher dalla prima evoluzione dell’Universo: ecco finalmente la prova della teoria del Big Bang che, 40 anni dopo essere stata ipotizzata da Lemaître, entrò nella corrente scientifica dominante.

La prima materia iniziò ad esistere quando l’Universo era molto giovane e molto più piccolo e quindi tutta la materia doveva essere confinata in uno spazio molto più piccolo: in quella fase l’Universo era incredibilmente caldo e la densità della sua energia era molto alta. L’LHC ci permette di studiare le proprietà di queste particelle fondamentali: per creare collisioni con energie più di 80 volte maggiori di quelle prodotte da due protoni. Ciò avviene accelerando gli atomi di piombo a cui vengono tolti tutti gli elettroni fino a raggiungere velocità simili a quella della luce e facendoli scontrare. Le collisioni sono così potenti che si formano quark, gluoni e leptoni, particelle che si unirono per formare atomi nel primo milionesimo di secondo dopo il Big Bang. Il plasma di quark e gluoni è uno stadio dell’evoluzione dell’Universo in cui subito prima che i quark vengano intrappolati dai gluoni per creare protoni e neutroni, che a loro volta procedono per formare i nuclei di atomi. Per sviluppare l’energia necessaria, i nuclei di piombo passano attraverso una catena di acceleratori più piccoli raccogliendo gradualmente l’energia finché non vengono finalmente introdotti nel più grande acceleratore della Terra, l’LHC. Il massimo di energia che un fascio può raggiungere è direttamente legata alla dimensione dell’acceleratore e l’LHC ha una circonferenza di 27 chilometri: questo vuol dire che il fascio può raggiungere un’energia pari a 1.000 teraelettronvolt. L’LHC può comprimere tutta quell’energia in uno spazio che è meno di un bilionesimo della dimensione di un singolo atomo: l’energia è concentrata ed è la densità dell’energia che conta.

 

Collisione di particelle all’interno dell’LHC

Studiare queste collisioni ci permette di capire come la materia abbia iniziato ad esistere. Tuttavia, alcuni dei misteri dell’Universo sono  ancora irrisolti: come le quattro forze fondamentali che uniscono la materia (gravità, elettromagnetismo e forze nucleari) sono connesse l’una all’altra; come le particelle che formano la materia si siano condensate in una nebbia di energia; come la massa si sia generata dalla forza che unisce protoni e neutroni e come l’Universo abbia subito un’espansione super veloce in un miliardesimo di secondo per creare la struttura del cosmo.

Nel prossimo articolo sarà trattata l’evoluzione dell’Universo.

                                                                                                                                                                Katia Canonico

Ingegneria Elettronica

Studentessa UNICAL