Generazioni a confronto

Truffe affettive: riconoscerle, per proteggersi di Federica Giandinoto*

*Avvocato, cultrice di criminologia

Abstract - La rete amplia le possibilità di fingersi un altro, per scopi criminali, per estorcere del denaro e molto altro. Ecco alcuni spunti utili per orientarsi, guardando alle cosiddette “truffe affettive”, purtroppo frequenti.

 

È un fenomeno attualmente molto diffuso, insieme alle truffe informatiche, ai furti d’identità in rete, e a tutti i cd. “reati informatici”, in cui ormai è frequente imbattersi, in un mondo dominato dal digitale e virtuale.

Le truffe affettive sono perpetrate, in maggior misura, dal genere maschile, ai danni dell’ ”altra metà del cielo”, e coinvolgono in questo caso il mondo delle emozioni e dei sentimenti, calpestandoli in modo egoistico e spesso crudele, per una bieca, ben nota e prevedibile finalità di arricchimento proprio, ai danni di una donna che si è nel frattempo innamorata del proprio truffatore.

L’uomo che comincia a scrivere dietro lo schermo si finge un militare o un professore, o un professionista qualsiasi (avvocato, medico o altro), che ha perso la propria moglie ed a volte anche i figli, pertanto solo e disperato, e che cerca una donna per instaurare una relazione sentimentale stabile.

E così, la malcapitata che sta dall’altra parte del monitor, magari anche lei una single matura, oppure che ha interrotto da poco una lunga relazione, già di per sé emotivamente fragile, si fa lusingare da quell’uomo, lambire dai suoi apprezzamenti così dolci e seduttivi, e comincia a sognare un amore romantico, che finalmente è arrivato.

Gli incontri virtuali sui social (Facebook o simili) si fanno numerosi, per conversazioni via chat interminabili, senza che i due si vedano mai, né in foto, né in video, e questo accresce il mistero ed il fascino di questa relazione.

Poi, all’improvviso, un giorno, lui chiede un prestito di denaro, adducendo un grave problema economico, che lo costringe a fare questa ardita richiesta a lei, mentre lui si vergogna – non si chiedono soldi ad una donna, va contro il suo bon ton! – e quindi si mostra imbarazzato, esibendo balbettanti giustificazioni.

Restituirà il denaro quando i due si incontreranno di persona, promesso. Quel giorno, però, non arriverà mai, mentre lui, invece, al contrario del fulmine a ciel sereno, sparirà dall’orizzonte, e diventerà irreperibile sul network.

E lì, la povera sfortunata comprenderà l’inganno, divenendo istantaneamente consapevole della tela di ragno che il suo adulatore aveva tessuto sin dall’inizio: il senso di colpa e vergogna saliranno e la turberanno.

Come ha potuto credere ad uno sconosciuto, che tutto sommato conosce solo da qualche mese? Come non ha potuto capire che si trattava di un vile mentitore che ha manipolato i suoi sentimenti?

La sensazione di essere una stupida prevale sulla realtà della dinamica dei fatti, anche della fragilità o sensibilità che la caratterizzano, magari in un periodo determinato, oppure della meschinità di un soggetto che si è approfittato della sua emotività simulando un interesse personale inesistente.

Tipico di questi casi è l’atteggiamento di auto colpevolizzazione della vittima, che già per natura e per tradizione storica si attribuisce la responsabilità di tanti altri eventi dannosi, come le molestie, o, peggio ancora, la violenza sessuale.

La donna è anche incredula sul fatto che è rimasta vittima della truffa, e per molto tempo nega a sé stessa che si sia trattato di un beffardo inganno, e si ripete che lui prima o poi tornerà, autoilludendosi continuamente, ma il sedicente corteggiatore non si farà più vivo.

La sofferenza sarà profonda, e ci vorrà tempo per elaborarla, poiché la donna è rimasta profondamente delusa.

La truffa affettiva è una forma di truffa che, dal punto di vista giuridico, rientra nel più generale reato descritto dall’art. 640 del nostro codice penale, il quale prevede e punisce proprio questo tipo di illecito.

La particolarità di questa condotta criminosa, è che, in questo caso, gli “artifici o raggiri” di cui parla la norma si manifestano prima con la simulazione di un innamoramento nei confronti della vittima, che crea in quest’ultima l’erronea convinzione di essere amata dal suo interlocutore, e poi con la finzione di uno stato di bisogno economico che muove l’agente a chiedere un aiuto alla nuova compagna di conversazioni.

Si tratta di un reato per il quale, al di là di alcune ipotesi aggravate (come quelle ricorrenti se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o dell’Unione europea, come nelle altre circostanze previste dall’art. 640 c.p.), è prescritta la querela di parte, per cui, se la donna vuole far punire questa condotta, deve necessariamente proporre questo atto, con il quale chiede si proceda contro il proprio manipolatore.

Ma come evitare di cadere nella rete dell’adescatore?

Ci sono alcune misure di prevenzione, possiamo chiamarle così, che si possono attuare, onde non ripetere questa sgradevole esperienza in futuro, se la si è vissuta, oppure schivare il pericolo la prima volta che si palesa.

In primis, sarebbe meglio non accettare richieste di amicizia sui social networks da parte di sconosciuti, poiché questi soggetti spesso utilizzano profili di altri individui, come anche le fotografie, a volte di personaggi famosi all’estero e non in Italia, per perpetrare il tentativo di truffa: meglio accettare richieste di amicizia di conoscenti e persone già frequentate nella vita reale.

Inoltre, una tempesta di telefonate e messaggi in cui il nostro “corteggiatore” ci inonda di complimenti e ci mostra un interessamento eccessivo ci deve far “allungare le antenne”, perché chi non ci conosce fino in fondo non può apprezzarci così tanto; in realtà questi sono dei tentativi di manipolazione per renderci poi dipendenti da lui.

Se poi lui rifiuta più volte un appuntamento dal vivo, o addirittura una videochiamata, questo è un altro campanello d’allarme: nessuno è così impegnato, se interessato, da non trovare un momento libero, per cui, se lui è così evitante, vuol dire che ha da nascondere qualcosa.

Un altro accorgimento può essere quello di inserire su Google immagini le foto pubblicate sul suo profilo, per verificare se è presa, come detto sopra, da un profilo di un personaggio pubblico, poiché così il truffatore potrà essere smascherato.

Infine, sia gli amici che i familiari potranno aiutare la vittima, offrendole sostegno, momenti di confidenza, divagazione e condivisione, senza giudicare ed essere troppo protettivi, bensì affrontando l’argomento senza imbarazzo e facendo notare eventuali anomalie.

Ragazze, donne, fate attenzione! Non fatevi abbindolare da chi vi vuole solo sfruttare per il suo tornaconto personale!

Smart Working e gabbie di genere di Claudia Ambrosio*

Abstract: Cosa conosciamo del lavoro agile? prima dell’emerga pandemica da Covid-19 lo smart working era poco conosciuto ed utilizzato mentre ora è entrato nella vita di tutti noi. E’ sempre un bene? Quali pericoli cela per i lavoratori e soprattutto per le lavoratrici? Luci ed ombre del lavoro agile tra innovazione e rischi di regressione.

* Avvocato - Criminologa

 peg 1

 

Da qualche anno, in concomitanza con l’insorgere dell’emergenza pandemica, abbiamo imparato a conoscere e familiarizzare con il c.d. smart working o lavoro agile, strumento questo prima sconosciuto ai più o comunque poco utilizzato.

Il lavoro agile, o smart working, è stato sicuramente un’opportunità non solo per le aziende, ma anche per il mondo della Pubblica amministrazione soprattutto durante la pandemia Covid-19 che ha segnato il 2020.

Ma partiamo dall’inizio ovvero dalla definizione di “smart working” e dal quadro normativo più recente per comprendere opportunità e rischi di tale modalità lavorativa.

Secondo il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: “lo Smart Working (o Lavoro Agile) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.

Una rivoluzione culturale, organizzativa, perché scardina alla base consuetudini e approcci tradizionali e consolidati nel mondo del lavoro subordinato, basandosi su una cultura orientata ai risultati e su una valutazione legata alle reali performance

Occorre precisare un aspetto di rilievo: lo smart working non è telelavoro; spesso, infatti, si tende a fare confusione e a sovrapporre queste due modalità di gestione del rapporto lavorativo, ma la differenza è sostanziale.

Il telelavoro, infatti, prevede lo spostamento, in tutto o in parte, della sede di lavoro dai locali aziendali ad altra sede (tradizionalmente l’abitazione del lavoratore), ma il dipendente è vincolato, comunque, a lavorare da una postazione fissa e prestabilita, con gli stessi limiti di orario che avrebbe in ufficio. Il carico di lavoro, gli oneri e i tempi della prestazione, insomma, devono essere equivalenti a quelli dei lavoratori che svolgono la prestazione all’interno del posto di lavoro.

Al contrario, il lavoro agile prevede che la prestazione lavorativa venga eseguita in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno, ma senza stabilire una postazione fissa. Non ci sono vincoli di spazio e tempo, l’unico vincolo sono i limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Si può lavorare da qualsiasi luogo (dentro e fuori l’azienda), non si timbra un cartellino, non si fanno pause in orari predefiniti. L’azienda e il dipendente ridefiniscono in maniera flessibile le modalità di lavoro, quello su cui ci si focalizza è il raggiungimento di obiettivi e risultati.

Le concrete modalità attuative sono poi state dettate dal D.P.R. n. 70 del 1999 “Regolamento recante disciplina del telelavoro nelle pubbliche amministrazioni, a norma dell’articolo 4, comma 3, della legge 16 giugno 1998, n. 191”. Il telelavoro viene definito come quella forma di lavoro svolto a distanza, ovvero al di fuori dell’azienda e degli altri luoghi in cui tradizionalmente viene prestata l’attività lavorativa ma, al contempo, funzionalmente e strutturalmente collegato ad essa grazie all’ausilio di strumenti di comunicazione informatici e telematici. Vengono stabilite linee guida su uso della postazione, modalità di connessione e di autenticazione ai sistemi, comunicazioni tra uffici e, dove previsto, utilizzo della firma digitale.

Il 23 marzo 2000 è stato stipulato l’Accordo quadro nazionale per l’applicazione del telelavoro ai rapporti di lavoro del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni. Infine, con la circolare INPS n. 52 del 27 febbraio 2015 (“Disposizioni attuative dell’Accordo Nazionale sul progetto di telelavoro domiciliare”) vengono illustrate le attività interessate e le modalità di attivazione del telelavoro, con particolare riferimento alle misure di prevenzione e protezione.

Alcuni vantaggi per i lavoratori risultano abbastanza evidenti, primo fra tutti la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. Lavorando da casa, infatti, si riesce a valorizzare il tempo a disposizione abbattendo i costi legati agli spostamenti.

Ci sono poi altri aspetti di profonda innovazione che vanno sottolineati, sia per i lavoratori che per le amministrazioni quali, ad esempio, la valorizzazione delle risorse umane e responsabilizzazione, ovvero ci si concentra sui risultati del lavoro e non sugli aspetti formali; la razionalizzazione nell’uso delle risorse e aumento della produttività, quindi risparmio in termini di costi e miglioramento dei servizi offerti;  la promozione dell’uso delle tecnologie digitali più innovative, solo per citarne alcuni.

Insomma, lo smart working è una leva di cambiamento per le PA e i suoi lavoratori, tuttavia, bisogna evitare che l’abuso dello strumento diventi una gabbia nella quale l’umanità resti intrappolata.

Se, infatti, esso ha rappresentato una soluzione a dir poco geniale durante la fase di lockdown, ora minaccia di diventare una pericolosa routine nella quale il lavoratore rischia di restare perennemente imprigionato, con maggiore pericolosità soprattutto per le donne lavoratrici.

peg

I principali pericoli sono rappresentati dal fatto che il lavoratore non ha un orario “certo” di lavoro e pertanto potenzialmente la sua giornata lavorativa potrebbe avere una durata “illimitata”, tanto che in giurisprudenza già inizia a parlarsi del c.d. diritto alla disconnessione ovvero il diritto a potersi disconnettere da remoto, a fare una pausa, a non oltrepassare il normale turno lavorativo.

Grazie alla previsione contenuta nella Legge sul lavoro agile (L. n. 81/2017) possiamo definire il diritto alla disconnessione come l’insieme delle misure tecniche ed organizzative, che hanno come scopo quello di garantire la salute ed il benessere del lavoratore in smart working, attraverso la previsione di periodi in cui l’interessato può dedicarsi alle proprie esigenze di vita e personali.

In tal senso è necessario evitare che chi “lavora da casa” sia costantemente connesso sulle chat aziendali o reperibile al cellulare.

La legge del 6/05/2021 n.61, ha introdotto un’importante modifica in termini di diritto alla disconnessione, relativamente al lavoro agile in favore dei genitori di figli minori di sedici anni.

L’articolo 1-ter prevede infatti, si legge nel testo, il riconoscimento a coloro che prestano l’attività in smart working del “diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati. L’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”.

La novità della Legge numero 61 è rappresentata dal fatto che finora il diritto alla disconnessione era unicamente previsto come una delle clausole da inserire nell’accordo individuale di smart working, ai sensi della normativa (L. n. 81/2017) che ha introdotto nel nostro ordinamento il lavoro agile.

Ora si prevede, nell’ambito dello smart working di cui al Decreto numero 30, per i dipendenti genitori di figli minori di sedici anni, il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto di eventuali accordi sottoscritti da azienda e lavoratore e fatti salvi i periodi di reperibilità concordati dagli stessi.

Il pericolo maggiore, tuttavia, riguarda le donne lavoratrici: da più parti, inizia a segnalarsi il rischio che lo smart working possa riportare le donne a stare a casa dopo anni di lotte, peraltro non ancora finite, per uscire dallo schema ancestrale dell’angelo del focolare domestico.

Da recenti studi effettuati dagli organi preposti all’osservazione dell’andamento del lavoro agile (Report “smart working e opportunità e rischi per il lavoro femminile”- School of Gender Economics- questionari rivolto a un campione rappresentativo di donne lavoratrici comprese fra i 18 e i 65 anni) emerge che, in questo periodo, 1 donna su 3 lavora più di prima e non riesce, o fa fatica, a mantenere un equilibrio tra il lavoro e la vita domestica. Tra gli uomini il rapporto è di 1 su 5. 

La ricerca conferma che la responsabilità della cura famigliare continua a gravare in prevalenza sulle donne che, soprattutto in questa situazione di emergenza, fanno fatica a conciliare la vita professionale con quella personale. Sarebbe invece auspicabile che proprio momenti di crisi come questi potessero aiutare a sviluppare una maggiore corresponsabilità genitoriale che alleggerisca la donna dal duplice carico familiare e professionale.

I dati seguono la linea di quelli individuati dall’Organizzazione Internazionale del lavoro (International Labour Organization, Ilo), secondo cui le donne svolgono una media di 5 ore di assistenza e cura al giorno e gli uomini un’ora e 48 minuti.

Il 2020 è l’anno zero delle donne, l’anno in cui rischiano di tornare indietro di un secolo: tutte le conquiste femminili, la loro autonomia, l’emancipazione, i diritti sono messi a repentaglio dalle conseguenze del Covid-19.

La quarantena, inoltre, sembra aver rafforzato alcuni stereotipi di genere, per esempio quello che vede le donne impegnate nella cura della casa e dei figli: il 30,9% delle donne dichiarano di occuparsi prevalentemente loro dei figli, a fronte di solo il 1,4% degli uomini. Gli uomini durante il lockdown si sono dedicati soprattutto al lavoro: è così nell'83,9% dei casi.

Non si dimentichi poi che non per tutte le donne la casa è un posto sicuro!

Le pareti domestiche possono essere il teatro di indicibili prevaricazioni: la violenza, infatti, intesa come prevaricazione fisica, psicologica, sociale, economica e sessuale, esercitata da parte di un soggetto in posizione di forza nei confronti di soggetti più deboli, (quali donne, bambini, anziani e disabili) è un fenomeno che non ha conosciuto deroghe o attenuazioni al tempo del Covid-19 ma, al contrario, ha mostrato una preoccupante diffusione, e questo non solo nel nostro Paese.

Che la violenza domestica, infatti, stia diventando “una pandemia dentro la pandemia” lo dimostrano anche gli interventi del segretario generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite”, il quale ha sollecitato in questi giorni affinché i governi di tutto il mondo adottassero concreti provvedimenti a favore delle donne.

In Spagna, ad esempio, viene utilizzato in farmacia un codice ad hoc ovvero “mascherina 19”, come parola in codice per chiedere aiuto in caso di violenza domestica, mentre in Francia la ministra per le pari opportunità ha previsto l’istituzione di un fondo speciale destinato al supporto, anche economico delle vittime di violenza, oltre che la destinazione di circa 20mila camere d’albero per accogliere le donne compagne di uomini o mariti maltrattanti con i loro figli.

Ad oggi, secondo i dati diffusi dai centri antiviolenza, nel solo periodo che va dal 2 marzo al 5 aprile 2020, ad esempio, si sarebbero registrate 2.867 ovvero 1.224 richieste di aiuto in più, rispetto al periodo precedente, e il dato sembra non conoscere freni o rallentamenti.

La coabitazione forzata, infatti, fa salire le tensioni e rende ancora più difficile denunciare i maltrattamenti, così come più difficile è fuggire, scelta, questa resa ancora più complicata dall’obbligo della quarantena, ovvero dei 14 giorni che devono necessariamente trascorrere prima di poter accedere a una struttura protetta cioè agli appartamenti dove la coabitazione metterebbe a rischio le donne già ospitate e i loro figli.

A ciò naturalmente si aggiunge la difficoltà di comunicare liberamente poiché di fatto non si è “mai” realmente sole e il carnefice potrebbe sentire, magari dalla stanza accanto, una ipotetica telefonata di aiuto.

Prima dell’emergenza Covid-19, infatti, una telefonata interrotta bruscamente comportava l’automatico richiamo da parte dell’operatore interessato al soccorso della vittima, ma oggi, fino a che punto si può essere sicuri che la chiamata non sia stata volontariamente interrotta, magari per paura di essere scoperte?

L’emergenza Covid-19, ha dunque comportato il collaterale effetto di isolare ancora di più la vittima di violenza domestica rendendola di fatto ancora più impaurita, fragile e vulnerabile poiché sola e afflitta dalla paura per il futuro, anche economico, che la aspetta, potrebbe non trovare la forza di andarsene per ricominciare una nuova vita per sé e per i figli, spesso impotenti spettatori del tetro spettacolo della sopraffazione quotidiana.

Lo spettro, infatti, dell’aumento dei casi di violenza assistita, ovvero della violenza a cui indirettamente o indirettamente assistono i figli delle coppie in cui si consuma violenza domestica, è solo l’ineludibile corollario all’aumento del fenomeno di cui si tratta.

Lo smart working è, dunque, una preziosa risorsa ma deve essere utilizzato solo ed esclusivamente in casi di reale, concreta ed effettiva necessità, non deve sostituirsi alla normale routine lavorativa ove non ve ne sia più la necessità a nulla valendo le considerazioni fatte da taluni sugli ipotetici risparmi della P.A. o delle aziende e soprattutto considerando che nel nostro Paese ancora tanta strada resta da percorrere per la realizzazione di un’effettiva parità di genere.

A cura di: Dott.ssa Claudia Ambrosio-Criminologaunnamed 1

Fenomeni di violenza di genere sul web: casi e tutele di Claudia Ambrosio

Fenmeni di violenza di genere sul web: casi e tutele di Claudia Ambrosio1

AbstractSi sente ormai quotidianamente parlare di violenza di genere ma quanto ne sappiamo della violenza di genere perpetrata a mezzo internet? La violenza di genere perpetrata attraverso i canali del web, attraverso, ad esempio le piattaforme social o via mail o attraverso le applicazioni di messaggistica istantanea è sempre più diffusa e pericolosa, soprattutto per la donna. Quali sono i pericoli più diffusi? Ma soprattutto quale la tutela o le tutele più opportune?

Quale relazione corre tra violenza di genere e pericoli della rete? Perché oggi più che mai è utile parlare dei pericoli che la donna incontra sul web?

Quotidianamente si sente parlare di violenza di genere ma meno nota è la violenza di genere perpetrata a mezzo internet, mentre, infatti, sono davanti agli occhi di tutti il femminicidio, le botte, la violenza e i tristemente noti fenomeni di lesione, di aggressione, di deturpazione, non tutti i tipi di violenza vengono alla luce con la stessa evidenza e soprattutto non tutti sono conosciuti e capiti agli occhi dei più.

Se, infatti, tutti abbiamo imparato a vedere la violenza diretta, palese e manifesta, non sempre altrettanto chiara è la violenza indiretta, quella c.d. di tipo psicologico, quella fatta di svilimento, di maldicenza, di persecuzione, di morte al pari della violenza fisica o diretta.

Eppure la violenza di genere perpetrata attraverso i canali del web, attraverso, ad esempio le piattaforme social o via mail o attraverso le applicazioni di messagistica istantanea è sempre più diffusa e pericolosa, soprattutto per la donna.

Ne deriva che il web è il teatro ideale per la mattanza di donne, per una serie di motivi:

  1. lo schermo abbassa l’empatia e rallenta i freni inibitori,
  2. si è più crudeli a causa della scissione fra l’Io reale e l’Io virtuale,
  3. si può nascondere la propria identità, si pensa più facilmente di farla franca e di ferire la vittima impunemente,
  4. non ci si rende pienamente conto della portata lesiva del proprio agito.

Non si dimentichi, infatti, che in principio si ritenevano i pericoli del web meno evidenti rispetto ai pericoli reali e questo poiché in un primo momento la società non era capace di cogliere i segnali della violenza indiretta, i lividi invisibili che essa lascia nell’animo di chi la subisce.

 

Oggi al contrario vi è una maggiore consapevolezza sul fatto che le conseguenze dei pericoli on line siano più gravi e letali per le vittime, perché ci si è resi conto, grazie anche al contribuito della criminologia ed in particolare della vittimologia, che il web ha una violenza espansiva ed illimitata, che il web non ha confini spaziali e temporali e di conseguenza dal web è più difficile scappare e proteggersi.

Ma quali sono i pericoli più diffusi? E per tutti è prevista una normativa ad hoc?

Il legislatore oggi ha inteso intervenire più energicamente rispetto al passato per disciplinare alcuni tra i fenomeni del web più diffusi come il cyberbullismo e il pornrevenge: il primo trattato con legge 71/17, il secondo con legge 69/19.

Tra i principali pericoli, che possono riguardare maggiormente le donne, possiamo ricordare a titolo di esempio fenomeni come il sexting, ovvero lo scambio on line di foto a contenuto sessualmente esplicito, i c.d. “stupri di gruppo sui social”, le truffe amorose in rete, i ricatti on line ovvero le sexetortion, il cyberbullismo in rosa, gli haters, il bodyshaming e naturalmente la porno -vendetta ovvero il fenomeno del porn-renenge.

Per alcuni di questi comportamenti è prevista una specifica previsione normativa per altri ancora no, tuttavia, anche quando la risposta normativa sia presente e mirata questo non deve far abbassare la guardia poiché la vittima soffre in ogni caso specie se donna e la risposta riparativa da parte della legge arriva comunque sempre a danno fatto

Perché, infatti, il web può rappresentare un posto più pericoloso per la donna? questo è un problema in primis culturale poiché la donna vittima del web è spesso e volentieri vittima anche della società a causa di una doppia morale che punisce più duramente la donna che l’uomo attraverso un giudizio morale stereotipato ed ancestrale.

Recenti sondaggi sul punto indicano che il 51% delle donne vittime del web pensa a gesti insani, soffre, si vergogna, si sente lei stessa carnefice e non vittima e soprattutto non si sente protetta e capita dalla collettività che percepisce come giudicante e responsabilizzante per l’accaduto.

Il tribunale morale è più spietato di quello civile o penale, ma vi è di più, il primo giudicherà la donna come responsabile, mentre i secondi la tuteleranno come vittima, ma purtroppo, troppe volte, il secondo giudizio arriva quando la donna ha già eseguito da sola la sentenza di condanna del primo, una sentenza che magari non avrà più possibilità di appello!

Ecco perché, soprattutto in quest’ambito, la legge da sola non basta e non può tutto ma occorre energicamente investire sulla prevenzione, sull’educazione ai sentimenti, sul ruolo di superare stereotipi ed una cultura misogina ed anacronistica e soprattutto questi pericoli necessitano un’energica tutela ma quale tutela?

La tutela più adeguata in tali casi deve essere in combinato disposto giuridica e sociale: la tutela giuridica deve essere sempre più mirata, evoluta e multidisciplinare.

Le norme devono tener conto della costante evoluzione che i fenomeni del web hanno e di conseguenza la risposta legislativa va letta sempre in una dimensione dinamica e non statica, inoltre sempre importante sarà il contributo che altre scienze sociali, come appunto la criminologia, la psicologia, la sociologia, vorranno dare per meglio tutelare la vittima e “trattare” il reo.

La tutela sociale, al contrario, dovrà passare attraverso dei percorsi “educativi” ben precisi quali ad esempio il superamento della doppia morale, dei c.d. processi sociali, degli stereotipi di genere, della valorizzazione della libertà anche sessuale, del superamento di giudizi morali o di valore ed infine centrarsi su un concreto sostegno e aiuto alle vittime

Ultima considerazione è quella del ruolo degli adulti sul web che da educatori diventano soggetti da educare, come affrontato anche in un precedente articolo della rubrica dedicato a questo tema, poiché essi stessi, in più circostanze, non sanno dare un buon esempio sul web alle nuove generazioni poiché o non conoscono i pericoli che esso cela oppure loro stessi hanno contribuito ad alimentare manie di protagonismo, modi di esprimersi in maniera violenta (si pensi ai casi di cronaca delle chat classe) ovvero hanno la pericolosa abitudine di postare le foto dei loro figli anche se minori sui social network, contribuendo ad alimentare esempi non corretti e certamente poco “educanti”.

La prevenzione, la cultura e la rete scuola famiglia unitamente ad una efficace tutela sono, ad oggi, la ricetta per salvare la mattanza delle donne sul web e prevenire il dilagare di una forma di violenza letale e pericolosa al pari di quella che quotidianamente si consuma fuori dalla rete.

  1)Avvocato - Criminologa

Il fenomeno del Killfie o Selfie estremo ovvero come rischiare la vita scattando foto

di Claudia Ambrosio

Abstract: Scattare selfie in condizioni estreme sta diventando sempre più preoccupante perché più persone rischiano la vita per delle foto, per apparire, per ottenere più like sui profili social. La società dell’apparire crea vittime di narcisismo e stupidità…

La nuova moda che dilaga tra gli amanti dei selfie e dei social network risulta quella di immortalarsi in pose così estreme da essere pericolose per la propria vita, per il puro piacere di ottenere più commenti e like.

Come emerge dalle ricerche condotte dal 2014 ad oggi sono morte 49 persone a causa dei selfie, con un’età media che si attesta intorno ai 21 anni, ma il dato è in crescita.

Nella maggior parte dei casi le vittime sono persone di sesso maschile, nonostante siano le ragazze a realizzare più autoscatti, lasciandosi attrarre dalla smania di autoritrarsi in ogni singola e bizzarra posa; difatti: dei 49 decessi, ad oggi registrati, ben 36 sono ragazzi. 

Questo troverebbe spiegazione: da un lato nel maggiore e tipicamente maschile sprezzo del pericolo che si manifesterebbe con la volontà di affermare la propria virilità a tutti costi, dall’altro in una forte predisposizione al narcisismo che si concretizzerebbe nella volontà di una sempre maggiore approvazione alle proprie attività e foto.

Le modalità più pericolose in cui ci si immortala attraverso selfie estremi sono varie e spaziano in diversi campi; nello specifico sono:

  • le “banali” distrazioni alla guida: ne è un esempio la ragazza iraniana la cui distrazione per guardare lo smartphone è stata fatale;
  • le più serie e preoccupanti cadute dall’alto, come dimostra il caso del genitore caduto in mare da 140 metri a Cabo da Roca in Portogallo o quello del turista tedesco precipitato da 40 metri a Machu Picchu;
  • fotografarsi mentre si è in attesa del treno: ben 8 dei 49 soggetti sono deceduti travolti dal treno sulle rotaie, dopo aver cercato di spostarsi all’ultimo momento utile;
  • fotografarsi in bilico su fili elettrici: alcuni individui sono rimasti folgorati dalla corrente elettrica che passa sui cavi,
  • fotografarsi sul ciglio delle autostrade o mentre si cerca di saltare sul cofano di un’auto in corsa.

Tuttavia la lista sembra continuare ad oltranza: sconvolgente il caso di chi, intento a ritrarsi mentre punta un’arma da fuoco alla testa, rimane vittima di questa pericolosa posa oppure la volontà di ritrarsi in compagnia di animali pericolosi come i tori durante la corrida oppure i leoni durante i safari.

Anche in questo caso la tragedia è stata inevitabile: un uomo, ad esempio, è stato infilzato a morte da un toro mentre stava per scattare il selfie, un altro è stato sbranato da un leone.

 

Alcune volte dietro il comportamento in esame sono stati registrati episodi di bullismo, in alcuni casi, infatti, le vittime sono costrette a tali “gesta” dal bullo oppure sono state sfidate o nominate in sfide virtuali demenziali; altre volte dietro il gesto folle si è registrata la significativa influenza di certi videogames ma comune a tutti i casi è la sottovalutazione del pericolo.

La realtà virtuale, infatti, così come rende più aggressivi, allo stesso modo porta a sottovalutare il pericolo, in altre parole ci si sente “smaterializzati” con conseguente percezione dell’Io reale invincibile come l’Io virtuale.

Il fenomeno è giuridicamente rilevante poiché tali comportamenti determinano che sempre più frequentemente si possa: sfiorare la tragedia (si pensi ai selfie fatti sui binari di una ferrovia, il che determina il rischio di strage); mettere a rischio la propria ed altrui incolumità (es. selfie alla guida che determinano un aumento degli incidenti stradali o dei casi di omicidio stradale) tuttavia il fenomeno non è oggetto di una normativa ad hoc.

Si potrebbe pensare di riferirsi ad ipotesi di diritto comparato (es. in molti paesi sono state istituite delle vere e proprie “no selfie zone” ovvero zone in cui è vietato scattare selfie come ad esempio in autostrada ovvero in prossimità delle ferrovie).

La via più efficace resta comunque quella della prevenzione legata alla divulgazione degli effetti nefasti del fenomeno in oggetto ovvero maggior controllo da parte dei gestori dei video che circolano in rete; far precedere le immagini da frasi che mettano in guardia sul contenuto nocivo o pericoloso delle stesse invitando a non replicare quanto si vedrà o, ancora, attraverso la rimozione dei video più pericolosi che possono creare allarmanti effetti emulativi.

I problemi legati ad internet hanno dimostrato, ancora una volta, come sia fortemente pericoloso mettere nelle mani dell’umanità uno strumento così potente senza prima educare quest’ultima al corretto esercizio di esso.

La libertà è una conquista, ma non può essere scevra da limiti che nascono dal rispetto dell’uomo, del suo onore, della sua dignità e dei suoi diritti inviolabili (art. 2 Cost.) tuttavia il rispetto più importante è quello per sè stesso.

 

 

L'intelligenza artificiale e la sua percezione di Giovanna Brutto

Abstract - L'essere umano ha sempre paura del nuovo, paura dell'incertezza. Infatti, la storia umana ci dimostra che ogni innovazione importante che si è affacciata nella nostra vita sociale è stata sempre accompagnata dalla paura. Ovunque attorno a noi i computer prendono decisioni per gli esseri umani e queste influenzano la nostra vita (combinazioni di tecnologie come i big data, il 5G ed Internet delle cose).      Ma tutto questo com'è possibile? Grazie all’intelligenza artificiale (o I.A.), un tema di grande attualità che apre opportunità ancora in gran parte inesplorate, ma anche tanti quesiti sulla sua natura. Tutto ciò potrebbe essere assimilabile ad un nuovo rinascimento economico, sociale e ambientale?Questo articolo cercherà di mettere in risalto quali sono gli elementi fondamentali dell'I.A., le sue luci e le sue ombre.

Donne nella rete: web e violenza di genere di Claudia Ambrosio

Abstract: Il web con la sua potenza e la sua forza “espansiva” può diventare teatro di violenza e persecuzione soprattutto per le donne. Reati come il porn revenge sono affrontati ora compiutamente dal legislatore con una normativa ad hoc, tuttavia senza un’adeguata tutela sociale ed un’efficace opera educativa la legge da sola può fare ben poco per le vittime.

La misoginia, l’odio per le donne ha caratterizzato varie fasi della storia dell’umanità, tuttavia, ancora una volta la potenza di internet e del cyberspazio, rende il fenomeno in esame ancora più allarmante a causa della risonanza del web che, inoltre, consente una rapida diffusione oltre i confini territoriali.

Uso più “etico” del web in periodo di Coronavirus e smart-working: tra opportunità e rischio di abuso di Claudia Ambrosio

Abstract: in pieno periodo di Coronavirus l’umanità ha riscoperto il valore dei rapporti umani e un uso più consapevole ed “etico” del web. Alcuni strumenti, poi, come lo smart working si sono rivelati alleati preziosi, tuttavia il pericolo che anche questi ultimi possano prestarsi ad abusi è molto concreto soprattutto per le donne lavoratrici che rischiano di restare nuovamente imprigionate nelle loro case, dopo anni di lotte per emanciparsi.

LA SCUOLA NON SI FERMA AL TEMPO DEL CORONA VIRUS: DIDATTICA A DISTANZA UN LIMITE O UNA RISORSA? di G. Brutto

In seguito al Covid 19 si è creato un particolare momento delicato nella storia della scuola italiana che ha richiesto un notevole sforzo e impegno da parte dell’intera comunità scolastica: bambini e bambine; genitori; ragazzi e ragazze e il personale ATA, DDSS.

Il Ministero dell’Istruzione (MIUR) con il “Manifesto della scuola che non si ferma”, espone i sei punti fondamentali che dovrebbero essere i principi della comunità educativa odierna: – Crescita, Comunità, Responsabilità, Sistema, Rete e Innovazione

La scuola è il luogo di crescita di ragazzi e adulti dove la fiducia e la corresponsabilità diventano fondamentali. Dalla comunità scolastica esprimere la propria vicinanza agli alunni e ai genitori è stato fondamentale. E’ stato necessario fare rete e condividere buone pratiche per costruire con tutti i docenti e i dirigenti nuovi spazi e ambienti di apprendimento, fisici e virtuali.

La didattica a distanza (DaD) ha rappresentato il fulcro delle modalità operative dei docenti dagli inizi di questa emergenza. Ma quale è stata la sua percezione tra genitori, docenti ed esperti? Quali sono i vantaggi e gli svantaggi? Questo articolo cercherà di sintetizzare questi argomenti attraverso delle interviste cercando di far emergere i punti salienti di essi.

VOCE AI GENITORI SULLA DaD

  • Chi aveva il proprio dispositivo, la connessione e lo spazio fisico non ha riscontrato veri e propri disagi.
  • Nella scuola primaria e scuola dell’infanzia non tutti gli insegnanti hanno predisposto delle videolezioni fatte da loro e la programmazione da seguire non corrispondeva al tipo di metodologia idonea ad affrontarlo. Il carico di lavoro era perciò sulle spalle dei genitori;
  • Corsa frenetica per finire il programma; le maestre nonostante la loro preparazione non erano pronte per una didattica a distanza.
  • Utilizzo in alcune scuole secondarie di primo grado di troppi canali per la restituzione dei compiti (email dell’insegnante; registro elettronico e Google classroom).
  • Problemi tecnici: accesso alla piattaforma da parte dei genitori e utilizzo da parte di alcune scuole con famiglie che avevano più figli di codici utenti non funzionanti per account unici
  • Mancanza di smartphone o altri dispositivi per famiglie disagiate o possesso di una linea Internet con pochi giga.
  • Tempi di attesa dei dispositivi in comodato d’uso per le famiglie meno abbienti troppo lunghi, rispetto alle richieste battenti dei professori delle varie materie.
  • Ritmi stressanti della DaD per i figli e anche per loro.
  • Mancanza del rapporto umano-fisico e del confronto col gruppo classe.

Dalle interviste che sono state fatte ad alcuni docenti di differenti gradi è emerso ciò:

  • la DaD è un'esperienza singolare nel suo genere: la velocità in cui è stato messo in piedi un nuovo sistema didattico e la capacità di adattamento dei docenti e delle famiglie;
  • si può fare lezione senza che si facciano male i bambini tra di loro gestendo i microfoni della lezione;
  • il silenzio nella videoconferenza non permette il brainstorming, non si instaura quel confronto che di solito in aula si può fare; che fa parte del gruppo-classe; 
  • Manca il controllo in sincrono con il lavoro che fanno.
  • L’insegnante e gli alunni devono sforzare maggiormente gli occhi: è stancante stare diverse ore con il monitor;
  • Ci vuole più tempo per controllare le restituzioni degli alunni. A differenza della lezione in presenza dove è tutto più fruibile.
  • Presenza costante dei genitori (nascosti o visibili).
  • Difficoltà dell’uso delle piattaforme da parte delle famiglie e scarsità dei dispositivi, dei mezzi tecnologici nelle case soprattutto con famiglie con figli che hanno frequentato più gradi scolastici.
  • I bambini hanno avuto un triplo feedback e sono stati rallentati nel loro processo di apprendimento; avevano ansia da prestazione. Solitamente l’'insegnante in classe li mette a proprio agio, cerca di colmare le loro lacune e si crea il rapporto bambino - insegnante creando quella interazione nel guidare il processo di maieutica che si cerca di stabilire.

In particolare, i genitori non solo tendevano a mortificare il figlio per il mancato raggiungimento degli obiettivi proposti dall'insegnante o per il suggerimento delle giuste risposte, soprattutto nel i primi gradi della primaria; man mano negli ultimi gradi la loro presenza è diminuita. Nella quinta erano soli; ma a volte vi era il problema opposto: vi erano i “furbetti” che spegnevano la telecamera, o dicevano che avevano problemi di connessione e il microfono a funzionamento intermittente. 

  • Apprendimento dei bambini di nuovi codici attraverso l’uso in prima linea del mezzo tecnologico, sono sbocciati dei veri e propri talenti con il mezzo informatico.
  • Non è l'apprendimento dei bambini che ne ha risentito con la didattica a distanza, ma l'autonomia personale, e in alcuni casi è degenerata e ha subito un processo di arretramento per cui anziché il bambino andare avanti è andato indietro; soprattutto quelli che avevano problemi comunicativi, con i più disagiati.

 

Percezione della didattica a distanza (D.a.D.): psicologa e pedagogista

INTERVISTA

PSICOLOGA

Prof.ssa G. Filippello - UNIME

PEDAGOGISTA

Prof.ssa G. Bonanno

UNICT

Pensa che la didattica a distanza contribuisca all'apprendimento dei corsisti?

 

“La possibilità di registrare le video-lezioni, consente di ascoltarle più volte, in relazione alle necessità”.

 

“Sicuramente è una soluzione al “Non far nulla”. La DaD contribuisce all’apprendimento in maniera proporzionale all’età dei corsisti. Quanto più grandi sono i discenti, maggiore può essere la possibilità di centrare l’obiettivo.

 

A Suo avviso, quali aspetti della didattica a distanza possono essere preziosi per un docente?

 

La didattica a distanza, poiché prevede l'utilizzo di strumenti informatici, potrebbe, inizialmente, motivare maggiormente gli studenti che, solitamente, fanno uso massiccio di questo tipo di strumenti. Inoltre, potrebbe essere utile al docente per sviluppare e/o consolidare alcune caratteristiche personali, come ad esempio, le abilità di problem solving in situazioni di stress, l'autoefficacia, ecc.

 

Partendo dal presupposto che l’insegnamento frontale sia di insostituibile valenza, la DaD può essere un valido alleato del docente per far sì che il “fil rouge” che lo lega ai suoi alunni non venga spezzato in periodi di impossibilità a vivere lezioni in presenza

Quali difficoltà possono essere riscontrate durante la didattica a distanza per un docente nei diversi ordini scolastici?

 

Mantenere la motivazione degli studenti, nel lungo periodo; riuscire a rendere partecipi i bambini di scuola dell'infanzia e della primaria, che necessitano, maggiormente, della didattica in presenza. I problemi più rilevanti potrebbero essere riscontrati dai docenti delle attività di sostegno, in relazione alla gravità e alla tipologia di disabilità dello studente.

 

Trovo di fondamentale importanza il contatto oculare, lo scambio di sguardi, in qualsiasi relazione. Pertanto, il non trovare riscontro immediato negli occhi di chi ti ascolta (in questo caso i propri alunni), credo possa essere una delle principali difficoltà riscontrate dai docenti nell’uso della DaD.

 

Quali difficoltà hanno avuto le famiglie durante la didattica a distanza, nei diversi ordini scolastici

Seguire i figli, sia durante le lezioni sia durante lo svolgimento dei compiti, soprattutto se nella stessa famiglia erano presenti più bambini che necessitavano di supporto. Ovviamente, i famigliari degli studenti delle scuole superiori di I° e di II° grado non sono stati costretti a supervisionare i figli durante l'orario delle lezioni, in quanto questi dovrebbero aver già acquisito un buon livello di autonomia.

 

La difficoltà principale, a mio avviso, è stata quella della connessione stabile e continua.

 

Cosa ne pensa degli attuali esami on-line nei diversi ordini scolastici?

La modalità online, per le difficoltà che comporta (es. problemi di connessione) può accentuare l'ansia e, quindi, è da considerare una soluzione adottabile solo in periodo di emergenza.

 

Sicuramente, un ottimo ripiego. Ma sempre di ripiego trattasi.

 

 

Quindi sintetizzando i punti salienti della nostra intervista si evince che:

  • La DaD incide sull’apprendimento dei bambini sia perché con la registrazione possono sentire più volte la lezione, sia perché potrebbe essere proporzionale all’età.
  • Si svilupperebbero o consoliderebbero le abilità tecnologiche dei bambini o dei ragazzi; e di meccanismi personali come l’autoefficacia, 
  • Il problem solving e la resilienza. Si cerca di mantenere il legame tra l’alleanza scuola-famiglia; docenti-discenti.
  • Le difficoltà emerse riguardano: la motivazione nel lungo periodo, i bambini più piccoli ne hanno risentito maggiormente soprattutto la scuola dell’infanzia e la scuola primaria, in particolare i bambini con bisogni educativi speciali, tra cui alcuni bambini con particolari disabilità. L’impossibilità di avere contatti fisici è stato molto negativo. 

 

 

Conclusione

Abbiamo e stiamo navigando nell’incertezza c’è un sentimento diffuso di smarrimento della nostra società. Cambiamenti dettati dall’emergenza sanitaria che hanno rimodulato tempi e spazi ripercuotendosi nelle relazioni sociali e misure riguardanti il contrasto e il contenimento sull'intero territorio nazionale del diffondersi del Coronavirus. E ancora siamo in una fase in cui si spera che non ci sia la sua seconda ondata.

Quindi, in conclusione la didattica a distanza è dovuta entrare nelle case con prepotenza, ma la scuola non sa nelle case, nelle famiglie cosa succede; nelle case ci sono segreti che sono fatti di parole, comportamenti, pensieri che noi docenti non conosciamo. La quotidianità è stata stravolta. Si sono cercati appigli che ci hanno fatto ricordare come eravamo prima, ma sappiamo che niente sarà come prima. Molti genitori si sono fatti carico di un lavoro che spesso non è corrisposto alle loro aspettative. Chi aveva più di un figlio nei diversi ordini si è sentito soffocato dal lavoro esagerato di restituzione. Molto commovente è stata la testimonianza di una docente della primaria: Mi ha mandato un bambino di quinta un PowerPoint con un cuore dentro che mi ha mandato attraverso un messaggio criptato in codice binario via email; mi ha detto maestra tu che sei brava, voglio vedere quanto ci metti decodificare il mio messaggio. Ho subito decodificato il messaggio Sono andata sul collegamento on-line e ho letto il messaggio del che così mi ha scritto: -Quante cose mi hai insegnato nella vita, mi dispiace lasciarti.  Non è tanto per le parole, ma la sua metodologia utilizzata.  Questo bambino ha capito quello che mi premeva di più: gli ho spiegato come funzionava la email, come funziona il PowerPoint; il codice binario non era presente nelle mie spiegazioni.

Gli insegnanti hanno gestito l’emergenza col grande merito di non mollare mai, la scuola è stata comunque un grande appoggio per loro.

Si ringrazia la collaborazione delle mamme e delle docenti che hanno dato il loro prezioso contributo per la realizzazione di questo articolo, soprattutto la Prof.ssa universitaria G. Filippello e Prof.ssa Gabriella Bonanno.

 

                                                                                                                                                 Giovanna Brutto

                                                                                                                                Dott.ssa Scienze politiche

Il galateo ai tempi del web: educazione e maleducazione digitale

Quando si pensa al concetto di educazione digitale, non si ha molto chiaro a quale idea di educazione bi­sogna riferirsi. Si evocano concetti di educazione lon­tani, artificiali, tecnologici, cui guardare come a qual­cosa di nuovo da imparare. Allora si pensa a corsi di formazione, a esperti che devono “insegnarci” a essere “educati digitalmente”, come se l’educazione digitale fosse qualcosa di diverso dal più generale concetto di educazione. Corollario di questo modo di ragionare è il rafforzamento della scissione tra l’Io reale e l’Io virtu­ale, quasi come se la persona avesse due diverse e net­tamente distinte dimensioni: una on line, una off line. Da tale modo di percepire l’educazione digitale deriva­no rilevanti e talvolta paradossali conseguenze, ma so­prattutto deriva la convinzione che si può essere persone diversamente educate secondo il piano, reale o virtuale, che decidiamo di considerare. Facciamo alcuni esem­pi per chiarire il concetto. Una persona reputata edu­cata dalla società non si sognerebbe mai di disturbare il prossimo in orari non considerati consoni (ovvero la mattina molto presto o la sera molto tarda), se non in casi valutati di estrema gravità o urgenza. Al contrar­io, è noto che le chiamate così come i collegamenti vir­tuali possono avvenire a tutte le ore del giorno e del­la notte, senza che ve ne sia alcuna necessità, ma solo perché è possibile farlo. Si entra in qualunque momento nella vita delle persone senza bussare, senza chiedere il permesso, senza pensare di poter disturbare o essere invadenti. Il rispetto dell’altro, tuttavia, è il primo indice di educazione, definita dal dizionario come: “il metod­ico conferimento o apprendimento di principi intellet­tuali e morali, validi a determinati fini, in accordo con le esigenze dell’individuo e della società”. Una persona educata, poi, interviene in una conversazione solo se esplicitamente interrogata o coinvolta, e naturalmente a domanda segue risposta. Al contrario quando si assiste a una “conversazione digitale”, anche queste banali regole sembrano non valere. Può capitare, in­fatti, di essere inseriti in gruppi di conversazione e di ricevere infiniti buongiorno e buonanotte, oltre che i più svariati auguri per tutte le possibili ricor­renze del calendario, da parte di soggetti che a volte sono poco più che sconosciuti. Può accadere di as­sistere passivamente a liti, frecciatine, battibecchi tra i partecipanti o di dover “subire” conversazioni che non coinvolgono o non interessano. Difficile ab­bandonare: spesso paradossalmente è questa scelta a essere vissuta dagli altri partecipanti come maledu­cata, così come maleducato è ignorare, soprassedere o silenziare il gruppo. Certo si potrà dire che ci sono gruppi e gruppi: in realtà ancora una volta il discri­men è rappresentato dall’educazione (reale e non digitale) dei partecipanti a esso. Quelli considerati come “gruppi educati” in realtà sono gruppi composti da persone educate, cioè persone che si comportano nella dimensione virtuale applicando le stesse regole della dimensione reale. Vediamone alcune: si scrive nel gruppo a partire ed entro una certa ora, salvo ur­genze effettive, ci si limita a fornire le informazioni ritenute essenziali (cioè quelle per la cui conoscenza e divulgazione si è resa necessaria la creazione stessa della chat), si fanno gli auguri per le principali fes­tività riconosciute esplicitamente dal calendario. Per tutte le altre informazioni che non si riferiscono al “gruppo”, nulla vieta di avvicinare direttamente i vari partecipanti in chat privata. A tal proposito si ri­cordano alcuni noti fatti di cronaca che si riferiscono a episodi di cyberbullismo sui generis poiché perpetrati da alcuni genitori contro altri, nei “gruppi di classe” di Whatsapp. Nel caso cui si fa riferimento l’inva­denza e la violenza del gruppo (dove alcune mamme si scagliavano contro altre a causa di un allarme pi­docchi), aveva raggiunto un livello tale da richiedere l’intervento del dirigente scolastico della scuola. In­utile soffermarsi sul fatto che una persona educata non offende, non usa toni aggressivi o denigratori, non umilia, non si accanisce contro il prossimo. An­che questa sfumatura assume connotati diversi se ci si trova nella dimensione on line ovvero off line. La c.d. “schermatura del monitor” rende più aggressivi, meno empatici e più propensi a diventare “maledu­cati” quando non addirittura veri e propri criminali. Ancora una volta non confondere il piano reale da quel­lo virtuale, potrebbe essere d’aiuto per tenere anche in queste situazioni un comportamento “educato”. Noti sono i c.d. haters o odiatori, cioè persone che usano il social network per diffamare, incalzare, insultare gli altri, specialmente personaggi appartenenti al mondo dello spettacolo. Senza arrivare a tali estremi tuttavia, non è mancato chi ha stilato alcuni comportamenti c.d. “vessatori” nelle comunicazioni virtuali, senza diventare giuridicamente rilevanti. Tra essi si annoverano: i sog­getti che seguono ossessivamente gli amici in rubrica per vedere se sono collegati sulla chat di Whatsapp, l’ora dell’ultimo collegamento, se il messaggio è sta­to letto o no, se è arrivato e quando, se è cambiata la foto profilo, ecc. Particolarmente “molesti” sono, poi, i soggetti che ricevono i messaggi su Whatsapp, che leg­gono i suddetti, con tanto di “sgraffio”, ma omettono di rispondere, senza apparente giustificato motivo. Sareb­be “educato” almeno inviare una faccina (o emoticon) chiarificatore! Altrettanto “maleducata” la prassi di mandare interminabili messaggi vocali, pur sapendo di esporre l’ascoltatore a un monologo, magari mentre si è in ufficio o in riunione con il capo! Una persona educata, poi, ci tiene al decorum, pertanto non dif­fonde immagini private di sé per non ledere il suo on­ore e per non essere sgradevole alla vista del prossimo. Fin da piccoli, ad esempio, ci hanno educato al rispet­to del nostro corpo, a metterci in posa per la foto con il vestito più bello (si pensi alle foto di classe con tan­to di grembiule e fiocco) a sorridere e a dare di noi un’immagine “composta”. Mai e poi mai si sarebbe pensato di esibire foto ritraenti la persona in pose ses­sualmente esplicite, degradanti o anche semplicemente mortificanti, demenziali o brutte. Oggi, al contrario va molto di moda fotografarsi in tutti i momenti del gior­no e peggio ancora, in tutte le situazioni, anche in­time, come se l’importante per “essere”, per “sentire”, fosse “mostrare”. Alle volte ciò è solo maleducato, altre volte le conseguenze possono essere più gravi. Mi riferisco, ad esempio al sexting e al porn-revenge, fenomeni sempre più noti per tristi fatti di cronaca. Molti di questi comportamenti sono rischiosi e in tanti casi anche rilevanti penalmente, tuttavia, senza arriv­are a tali livelli spesso si scade, comunque nel cattivo gusto o nella maleducazione. Non è educato inviare proprie foto mentre ci si trova in vestaglia o in pigia­ma nel bagno di casa, nella vita reale non usciremmo mai da casa così, quindi perché diffondere la nostra immagine “disinvolta” nel cyberspazio o condivider­la con la nostra rubrica? Perché mostrarci in bigodini, sul water, con i cetrioli sugli occhi, con le dita nel naso, in mutande o a letto con l’influenza? Questa non è la massima espressione della libertà di pensie­ro, non è una rivendicazione sociale, non è il progres­so portato al suo acume: è solo espressione di cattivo gusto, quando non anche di cattiva educazione. Molti dei comportamenti biasimevoli che si tengono on line si potrebbero evitare semplicemente applicando le regole della decenza, del decoro o della “cara, vecchia buona educazione”. Per essere correttamente educa­ti digitalmente, pertanto, non è necessario consultare nessun costoso specialista, basta semplicemente ricor­dare gli insegnamenti che si sono ricevuti da bambini.

 Claudia Ambrosio

Avvocato e Criminologa

Parlare e parlarne per decidere di decidere

 

È iniziato il nuovo anno scolastico e anche il presidente Mattarella, all’isola d’Elba, tra i tanti punti che ha posto all’attenzione di tutti, ha sottolineato il ruolo del Web e del digitale.  È come un flusso che scorre senza freni e che inonda ogni parte delle nostre vite, nasce ogni giorno un software o un application sempre più innovativa, alla portata di tutti, in grado di rendere la nostra quotidianità meno complessa, e noi, ne abbiamo sempre più bisogno; i più Giovani ne hanno sempre più bisogno; i social- dipendenti non smettono più di averne bisogno: gli esperti parlano di CRAVING, voglia irrefrenabile di utilizzare il digitale e la rete, necessità interiore di essere connessi e interconnessi. Come uscirne? O, più appropriatamente, cosa fare per aiutare i più deboli ad uscirne? Semplicemente e brutalmente bisogna parlare, confrontarsi: essere l’uno la spalla dell’altro. È necessaria una sorta di “fratellanza comune” nella quale i più forti, coloro i quali sono in grado di non farsi dominare dalla dipendenza, supportano ed aiutano gli altri attraverso il dialogo.

La direzione generale per lo studente del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca infatti si sta impegnando a promuovere la campagna “AIUTA UN AMICO”, con l’obiettivo di comunicare l’importanza dei rapporti interpersonali solidi. Questo sta avvenendo perché gli adolescenti cadono sempre più spesso in spiacevoli problematiche connesse al WEB dalle quali non solo non riescono ad usciere ma non trovano neppure il coraggio di parlarne. Una nebbia avvolge la razionalità e non si è più in grado di controllare sé stessi, è da qui che partono le dipendenze, le problematiche e nei casi peggiori, i suicidi.

 Potrebbe sembrare banale, ma non lo è affatto: parlare aiuta sia a comprendere che ad abituare la mente al confronto verso l’altro, e questo è motivo di crescita sia personale sia comunitaria, soprattutto nel momento in cui i due interlocutori vivono la stessa fascia di età ed hanno quindi percezioni simili nei confronti della società che li circonda. È dunque questa una ricetta perfetta, certo non una soluzione definitiva, per cercare di fermare questo grande e strano fenomeno.  L’antropologo Niola, in una video-intervista rilasciata a Repubblica.it, spiega sinteticamente il passaggio epocale che siamo chiamati a vivere e la fragilità dei rapporti interpersonali dietro una realtà virtuale: rapporti che sembrano tutto ma non sono nulla. Niola, brutalmente, sintetizza: “Dal cogito ergo sum, al digito ergo sim”[1].

Proprio su questo confine bisogna porre l’attenzione, per raggiungere quella sensibilità necessaria a capire fino in fondo quello che sta accadendo. Molti ragazzi social-dipendenti credono di essere circondati da una miriade di amici digitali che si trovano nella loro stessa identica posizione: pronti a vivere la vita attraverso uno schermo, determinati a cercare tutte le esperienze attraverso quello schermo e convinti che tutto ruota intorno a quello schermo. Ma non è cosi, e se a spiegarli che non è cosi sono quegli stessi ragazzi/amici/pari che loro vedono come identici ma che in realtà non sono dipendenti, loro verrebbero investiti da una temibile onda di razionalità, un’onda che li porterebbe necessariamente ad aprire gli occhi iniziando finalmente a comprendere la vita. È per questo che bisogna fare di tutto per educare ad educare e far capire quanto importante sia comunicare, cercare il dialogo e cercare il confronto anche con chi non da una risposta, anche con chi apparentemente rifiuta, anche e soprattutto con chi si isola e si chiude in una nera bolla di inchiostro fatale.

La società può trovare le soluzioni ai suoi problemi solo all’interno della società stessa; è la parte buona che deve impegnarsi a sanare tutto il resto. Nei prossimi anni il grande gioco di squadra che tutti saremo chiamati ad affrontare avrà un ruolo fondamentale per il destino di tutte le generazioni che verranno e noi, adesso, dobbiamo impegnarci affinché tutti possano comprendere con serietà e rigore quanto sia necessario parlare e parlarne, confrontare e confrontarsi. Solo così si può comprendere e decidere di decidere.

Alessio Rocca

 

Riferimenti 

[1] Video-intervista rilasciata dal dott. NIOLA, Antropologo, alla testata giornalistica on-line Repubblica.

 

UN SALTO, NEL VUOTO.

Orientati verso orizzonti poco chiari e sempre meno spinti a vivere pragmaticamente ciò che l'adolescenza propone; stiamo parlando di quella percentuale di ragazzi e ragazze vittime dell'abuso del cybermondo.
I dati sono allarmanti, negli USA aumenta ogni giorno il numero di giovani indirizzati a centri di riabilitazione e la dipendenza abbraccia ormai quasi il 50 % degli adolescenti. In Europa le percentuali sono più basse ma risultano comunque molto preoccupanti. 
Stiamo osservando alla luce del sole una crisi d'identità sul piano sociale, ma.. PERCHÉ?  Non risulta per niente facile focalizzare il nocciolo dei problemi in quanto sono tanti gli elementi che hanno contribuito a crearli. Nella singolare vita di ogni individuo (perché è del singolo che bisogna iniziare a discutere), come ci spiegano scienza e filosofia, risulta tutto subordinato alla mente, e dunque da una parte alle capacità razionali che il singolo possiede e dall'altra al bagaglio di conoscenze acquisite nel proprio percorso di vita. Inoltre, la realtà in cui veniamo letteralmente "gettati" al momento nella nascita, viene da noi gradualmente compresa sia attraverso  modelli di insegnamento (gestiti dal nucleo familiare e dalle istituzioni) e sia grazie ad esperienze interpersonali di natura varia; se quei modelli risultato ad oggi limitati o quasi nulli rispetto alla differenza tra dimensione concreta e dimensione digitale e se le esperienze di natura varia vengono meno in quanto tutto si riduce alla sola dimensione digitale (lo confermano le oltre 6 ore al giorno che gli adolescenti di oggi passano davanti ad uno schermo), lo sviluppo della mente di quei fanciulli sopra citati si baserà su canoni di visione troppo legati (se non unicamente) alla dimensione digitale del mondo.
Più semplicemente significa avere una concezione distorta della realtà nel suo insieme e non comprendere quali siano i confini tra i due mondi (reale e digitale). 
Le conseguenze sono tante, ma risuonano con fermezza solo le più estreme: "Blu whale" che ha portano al suicidio volontario conscio e programmato 130 adolescenti; o l'assurdo gioco che si è diffuso qualche mese fa, quando alcuni ragazzi hanno perso la vita facendo a gara a chi avrebbe scattato un selfie il più vicino possibile ad un treno in corsa.
 
La diffusione del cybermondo: "il salto, nel vuoto"; ha investito e sta investendo tre generazioni differenti in tre modi differenti, e all'interno di queste differenze si celano sicuramente le cause dei problemi e probabilmente anche le soluzioni.
DA UNA PARTE, i nostri genitori e nonni: che lo hanno conosciuto quando erano già più che maturi, culturalmente, intellettualmente e spiritualmente (influenzati quasi per niente), IN MEZZO, noi: i nati tra la fine degli '80 e la fine dei '90 (influenzati parzialmente) e DALL'ALTRA PARTE,  gli ultimissimi arrivati: chi è nato con in mano un ipod e prova a "zummare" l'immagine di un giornale allargando le dita (influenzati totalmente).
Grazie al ragionamento proposto sopra comprendiamo che le uniche vittime sono gli appartenenti all'ultima categoria. 
Per ragioni ovvie prima e seconda categoria giocano oggi un ruolo fondamentale, perché per quanto possa sembrare banale su questo piano risulta importantissimo diffondere i giusti principi, soprattutto tra pari.
In conclusione dunque bisogna prendere atto di tutto questo, ed esercitare in ogni modo influenze positive nei confronti delle nuove generazioni. Il tempo scorre e non essere in grado di concretizzare opportune reazioni significherebbe innescare un circolo vizioso e in un periodo di tempo non troppo lungo raggiungere un disastro sociale dal quale uscirne sarebbe poi troppo complesso: impegnandoci tutti a diffondere saggi principi!
Alessio Rocca
Studente universitario
già Presidente regionale
delle consulte studentesche

Bullismo e Cyberbullismo: il ruolo del nonno nella prevenzione del disagio giovanile.

Il ruolo dei nonni nelle vita dei nipoti è di fondamentale importanza, tanto da essere motivo di studio di svariate discipline: dalla psicologia, alla sociologia, al diritto, ecc.

Recentemente sempre più oggetto di interesse è questa figura da parte della criminologia, posto che tale scienza si occupa non solo dello studio della criminalità ma anche della prevenzione dei fenomeni delittuosi.

Ci si è chiesti  se il nonno può avere un ruolo, e se si quale, nell’ambito della prevenzione della delinquenza giovanile ed in particolare nella prevenzione dei diffusi fenomeni del bullismo e del cyberbullismo.

RIFERIMENTI

logo icted

ICTEDMAGAZINE

Information Communicatio
Technologies Education Magazine

Registrazione al n.157 del Registro Stam­pa presso il Tribunale di Catanzaro del 27/09/2004

Rivista trimestrale  

Direttore responsabile/Editore-responsabile intellettuale

Luigi A. Macrì